Archivi del mese: agosto 2015

Retroscena e rischi della scoperta italiana del grande giacimento di gas nel Mediterraneo.   Video intervista a Antonio de Martini


 

 

LE TRE IPOTESI DEL PREFETTO GIUSEPPE PECORARO SU COSA FARE A ROMA CONTRO LA CORRUZIONE POLITICA

Scritta a dicembre 2014. Il prefetto Pecoraro, da bravo italiano, si si è salvato fuggendo. Per dare i normali poteri di un tempo al nuovo prefetto, il ministro ci ha impiegato otto mesi.
Il quesito rimane.

IL CORRIERE DELLA COLLERA

Dopo aver detto che non gli risultava nulla ( il prefetto è la massima autorità antimafia) dopo che i giornali hanno pubblicato la notizia che il Prefetto aveva ricevuto il pregiudicato Carminati in ufficio per presentare i progetti della 29 giugno, finalmente il prefetto di Roma dice qualcosa che fa pensare all’esistenza di un residuo di materia grigia.
” Esistono tre ipotesi: accedere alle carte, sciogliere il consiglio comunale, non far nulla in sovrapposizione con la magistratura. ( quindi aspettare un paio di anni).

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LA PREGHIERA ” DEGLI ALPINI” DI OGGI E L’ITALIA DI IERI. di Piero Laporta

Popolo d’eroi? Bastò una preghiera a spaventare un curato e un curato a terrorizzare il corpicino d’alcuni Alpini; sia memoria allora dei soldati veri.
MILITE IGNOTO

Sono qui dal 4 Novembre 1921, sebbene i ragazzi che mi vegliano siano molto più vecchi di me. Mi scelse Maria Bergamas, la madre di Antonio, di Trieste; fu un irredento, come si disse, passato di qua per combattere gli austriaci. Fui frantumato da una bomba vagante e precisissima; come accadde a migliaia d’altri, d’altro canto. Se non ci fossi stato io, Antonio a Trieste sarebbe ricordato solo per la società sportiva Edera, fondata nel 1904. Chiesero alla madre di scegliere un caduto non riconosciuto. Scelse me. Come mi chiamo? Ignoto Milite, ovviamente. Il nome iniziale non lo ricordo più; sono capofila degli eroi loro malgrado, sicché ne avrei fatto a meno ma oramai è tardi.

Sono l’unico eroe che non ha una decorazione al V.M. tuttavia non mi pesò visto com’era andata e come sta andando con la semina di medaglie. 

Le decorazioni furono ben motivate, spesso ma non sempre. Io non sono parte in causa e quindi qualche fatterello ve lo posso ricordare. 

Nel 1932 precisarono: ”Le decorazioni al valor militare sono concesse a coloro i quali, per compiere un atto di ardimento che avrebbe potuto omettersi senza mancare al dovere ed all’onore, abbiano affrontato scientemente, con insigne coraggio e con felice iniziativa, un grave e manifesto rischio personale in imprese belliche. La concessione di dette decorazioni può aver luogo tuttavia solo quando l’atto compiuto sia tale che possa costituire, sotto ogni aspetto, un esempio degno di essere imitato”. 

Precisazioni necessarie. In precedenza le medaglie andavano più che altro agli ufficiali e ai nobili. Prendete questa motivazione per la M.O. al V.M. “Per essersi distinto durante l’assedio e presa di Capua, 2 novembre 1860 ”, oppure quest’altra “Per il valore e l’intelligenza dimostrati sotto Gaeta, 12 novembre 1860”; con le stesse motivazioni a me non dettero neppure una licenza di tre giorni.

Se i miei amici campani avessero letto la motivazione per la M.O. al V.M. del principe Eugenio Emanuele di Savoia Carignano: ”Per essersi distinto quale luogotenente generale di S.M. il Re nelle province meridionali, Gaeta 1861”, si sarebbero arrabbiati due volte perché la “distinzione” premiava il principe a danno dei loro nonni. Allo stesso modo i fanti abruzzesi avrebbero avuto da ridire per quell’altro che fu insignito:” Per l’intelligenza, l’energia ed il valore dimostrati nel concorrere a formare il piano e a dirigere le operazioni degli Abruzzi e dell’Ascolano contro i briganti e condurre una colonna all’assalto di Civitella del Tronto”.

Piccola curiosità: le medaglie per “benemerenza patriottiche”, distribuite da Vittorio Emanuele III fra il 1926 e il 1941, per celebrare la compartecipazione delle città italiane al “Risorgimento Nazionale”, non decorarono alcuna delle città pugliesi, abruzzesi o calabre. 

Negli ultimi tempi tuttavia hanno ripreso a distribuire ricompense con la stessa generosità che usava il Regno di Piemonte al suo notabilato. Stabilì il Presidente della Repubblica, il 18 luglio 1986, con suo decreto:”Le ricompense al Valor Militare sono: 1) Ordine Militare d’Italia (nelle cinque classi); 2) Medaglie al valor militare (ivi compresa la croce di guerra)”. 

I nuovi notabili repubblicanini si domandarono come seguire le orme dei piemontesi. In questi casi basta una commissione di “esperti” che docilmente sancisce, come sancì il 21 maggio 2003, che l’Ordine Militare d’Italia ha natura di “ordine equestre” (spericolata contiguità coi somari!) potendosi dunque conferire benemerenze distinte dal valor militare, così assegnabile a tanti benemeriti equestranti, troppi. 

Nel frattempo le ricompense si moltiplicarono, con triplici ordini di medaglie (oro, argento e bronzo) al merito dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, dei Carabinieri, della Polizia di Stato e via ricompensando. Sono in attesa Guardia di Finanza, Polizia Forestale, Polizia penitenziaria e polizia Postale, polizia doganale, mortuaria, sanitaria e guardie campestri. Tutti valorosi repubblicanini.

Acqua passata o, se preferite, sangue passato. Torniamo a me e non vi dirò se provengo dalla Valtellina, dalle colline liguri, dai boschi garganici o dai dammusi di Pantelleria. Rappresento tutti, anche quelli che non vogliono esserlo. La Grande Guerra mi costò la pelle. Se ora tuttavia la osservo dai palazzi dell’Unione Europea, appare quello che è: una follia. Ancora più folle sarebbe iniziarne un’altra per cancellare quella sbagliata e per gli interessi dei repubblicanini. 

Adesso ascoltate i racconti di questi miei amici.

 

Enrico Toti (M.O. al V.M.)

Tre centri di reclutamento, tre volte respinto. A 33 anni, senza una gamba, dopo tutto risparmiate una scarpa: “Eccellenza, con e senza gamba ho girato il mondo – il generale mi guardava annoiato – A quindici anni m’imbarcai sul Fieramosca, poi su corazzata Emanuele Filiberto, infine incrociatore Coatit”. Lascio la Marina nel 1905, sono nelle ferrovie e perdo una gamba sulle rotaie, 10 lire di pensione e tempo a disposizione, inforcai la bici: da Parigi a Varsavia, dal Polo al deserto nubiano.

Era il 1916. Mi ammisero finalmente fra gli ausiliari della brigata Aqui. Ci stavo stretto. Un giorno mi trovai a combattere coi bersaglieri ciclisti del 3° Reggimento. Prendemmo Gorizia, poi attacco a Quota 85, est di Monfalcone. Non so dirvi quante volte ferito e da chi; contabilità trascurabili.

Lanciai la gruccia agli austriaci, gridando “Nun moro io!”. Mi sbagliavo, ovvio, ma avevo troppa fretta per accorgermene. Abbagliato dalla Sua luce, la Sua mano mi carezza ancora.

Tenente Fenafly COLEMAN DE WITT (M.O. al V.M.)

Molti di voi non lo ricordano più, ma ci fu un tempo in cui l’Italia, che era Italia, donava aerei agli Stati Uniti, aerei da guerra. I piloti statunitensi, come me, venivano ad addestrarsi sui Caproni. La 6^ squadriglia, la mia, ebbe i Caproni Ca.5 ad agosto del 1918. Ci alzammo in volo anche il pomeriggio del 27 ottobre. Quattro giorni prima partiva l’ultima offensiva verso Ceneda e Serravalle, i due villaggi, uniti dopo l’armistizio col nome di Vittorio Veneto. Volavamo in quel cielo. Ci sentivamo abbastanza sicuri. L’Austria Ungheria si sarebbe arresa due giorni dopo. Gli oberleutnant Roman Schmid e Emmeric von Horvàt giocavano tuttavia la partita austriaca sino all’ultima fiche. Ci vennero addosso con cinque caccia: era gran parte dell’aviazione viennese rimasta in quel settore. James Bahl, il mio secondo, e I due italiani dell’equipaggio, il sergente Tarcisio Cantarutti e il sottotenente Vincenzo Cutello, si comportarono splendidamente. Le nostre mitragliatrici tirarono giù due caccia austriaci. Erano troppi ugualmente. Un attimo dopo la terra ci venne incontro, i motori fiammeggiavano. Dettero la medaglia solo a me, perché non avevo evitato la battaglia. I due italiani, ovvio, sono dimenticati. 
Capitano pilota Carlo Emanuele BUSCAGLIA (M.O. al V.M.)

Aerosilurante, “arma nuovissima”, dicevano. Gli inglesi avevano “anche” gli Swordfish, che silurarono nella rada di Taranto, novembre del ’40. Noi a un certo punto avemmo “solo” il Gobbo Maledetto e il Mas. Sul mare ci pensavano i Birindelli, nel cielo toccava a noi fare “uragani di ferro e fuoco”. Il mio primo assalto il 27 Agosto 1940. I primi esperimenti risalivano al 1914. Oh, gli stati maggiori: 36 anni per capire che occorre cabrare, picchiare, volo orizzontale a 300 chilometri orari, quota 100 metri, sgancio a 700 metri dal bersaglio, virata evasiva piatta, senza esporre l’ali a farti impallinare. 32 operazioni per mille picchiate così. 1942, 12 novembre 1942, uno Spitfire mi sbatte in mare. Sono prigioniero. Credutomi morto, i miei compagni passati a Salò m’intitolano lo stormo d’aerosiluranti. Io, tornato vivo in Italia, vivo e combatto sull’altro fronte. Quanto non potè Spitfire, riuscì a un banale incidente di volo, il 23 agosto del ’44, a tre giorni dal quarto anniversario del primo assalto. Avevo fretta, avevo fretta.
Carabiniere Vittoriano CIMARRUSTI (M.O. al V.M.)

Di me s’avvedono i cittadini che godono o patiscono i servigi d’una stazione di Carabinieri, nella cui sala d’attesa c’è una delle stampe volute dal generale Giovanni De Lorenzo: sono in ginocchio su una trincea esposta all’attacco, fra i miei compagni caduti, incito i rimanenti, mentre lancio l’ultima bomba a mano. Era cominciata alle 7 del mattino e non vidi il tramonto oltre le 16. 

Gunu Gadu, nell’Ogaden, era un baluardo presidiato da 30.000 etiopici, trincerati tra caverne e alberi secolari, le armi organizzate per un terribile fuoco incrociato. 

Sui manuali è scritto che un tale caposaldo non lo si assale con gli autocarri e allo scoperto. Noi assalimmo così. Quando difettano le tattiche abbondano gli eroi. Quel giorno guadagnarono una medaglia anche il capitano Antonio Bonsignore e il collega Mario Ghisieni. 

È un errore la guerra e, in questo caso, è un errore anche la tattica, ma il sacrificio dei soldati è vero. Eravamo soldati, insegnamo ad esserlo alle generazioni successive.
Gen. B. CC Enrico GALVALIGI (M.O. al V.C.)

Sacrificai la vita per dare al generale Dalla Chiesa una collaborazione senza la quale egli avrebbe fallito: la sorveglianza delle carceri di massima sicurezza – i penitenziari di Trani, Fossombrone, l’Asinara, Nuoro e Cuneo – dove erano detenuti i più pericolosi terroristi d’Italia.

Dopo la morte di Aldo Moro, furono catturati numerosi terroristi, i quali non volevano restare in carcere. Nel 1980 ho represso, senza spargimento di sangue, con l’aiuto dei GIS, la rivolta scoppiata nel carcere di Trani. Un togato m’additò ai terroristi. M’uccisero la sera del 31 dicembre 1980. 

Dove sono ora le medaglie contano poco, tuttavia la medaglia al “valore civile” a me, soldato fino al midollo, a me non piace. Quelli della strage di via Rasella ebbero la medaglia al valor militare per la macelleria. Il mio “valore militare” dissero poteva risolversi in indiretto riconoscimento da combattenti ai miei assassini. Farisei. Temevano a tal punto quel riconoscimento che poi li hanno messi tutti fuori, con sussidi e aiutini vari.

Capitano di cavalleria Antonio Vinaccia (M.A. al V.M.)

Presi la medaglia, ma voglio parlarvi del mio reggimento, “Alessandria”, gli ultimi cavalieri che caricarono in formazione, stendardo in testa. Ore 18.30 del 17 Ottobre, a Donje Poloj.

Tre sbarramenti di titini di fronte al reggimento; maciullato se s’arresta, dai partigiani sui fianchi e a tergo. “Il tuo ultimo squillo sarà di carica” è scritto sulla tromba di Petroni, comandante dello squadrone in avanguardia. La tromba dissolve cautele. Petroni travolge il primo sbarramento. Alle spalle arrivano trecento cavalli: squadrone comando coi mitraglieri, comanda Antonio Ajmone Cat. A destra e sinistra Alciator e Comotti portano i loro nei varchi aperti dai precedenti, aprendone ulteriori. Tre sbarramenti superati sciabolando.

Io? In retroguardia… Facile? Non capite nulla di battaglie. Carica a fronte rovesciato, quattro volte carica per proteggere la sezione d’artiglieria. “Capo pezzo! Alzo zero! Fuoco anche se mi vedi in mezzo al nemico”. Pare fossero le mie parole prima dell’ultima mischia. Non non tenevo appunti dei miei ordini. Possibile, dopo tutto.

S.Ten. del genio Ettore Rosso (M.O. al V.M.)

L’8 settembre 1943 non fuggii. Avevo 23 anni, studente al politecnico. Non scappai, mi arruolai. Fui comandante di plotone del 134° genio della Divisione corazzata Ariete. A difendere Roma l’Ariete apprestò tre capisaldi: Manziana, Bracciano e Monterosi; mio quest’ultimo.

Alle quattro del mattino, 9 settembre, mentre posavamo mine arrivò il Kampfgruppe Groesser della 3a Divisione Panzergrenadieren, 30 carri armati e due battaglioni granatieri. 

Disposi di traverso sulla strada i due autocarri carichi di mine e tritolo, a impedire il passaggio alla colonna tedesca. Il comandante del Kampfgruppe ci intimò di sgomberare la strada entro quindici minuti.

Mandai via tutti. Rimasero con me quattro volontari: genieri Pietro Colombo, Gino Obici, Gelindo Trombini e Augusto Zaccanti. Dieci minuti per preparare le micce, gl’inneschi accesi mentre la colonna tedesca s’avvicinava. Lo scoppio sorprese il tedesco, non noi; età media 21 anni, io ne avevo 23, ripeterlo vi giovi.
Capitano di Corvetta Salvatore Todaro (M.O. al V. M.)

L’ammiraglio Karl Dönitz mi schernì: «Don Chisciotte del mare». Mi convocò perché, affondato col cannone del mio sommergibile il piroscafo belga Karbalo, mi fermai, raccolsi i profughi, li rimorchiai su una zattera per quattro giorni e quando il cavo di rimorchio si spezzò, ospitai i naufraghi sul sommergibile prima di sbarcarli.

“Ammiraglio lei non può capirmi perché non ha duemila anni di storia alle spalle” dicono che rispondessi allo sprezzante Dönitz. Non ricordo, ne ho fatte tante…

Continuai comunque a salvare naufraghi, ad attaccare le navi anche col cannone e non dormivo mai perché sapevo che sarei morto mentre dormivo, lo sapevo.

Dopo numerose azioni col sommergibile, stanco delle critiche per i miei metodi di guerra, me ne andai nella X Flottiglia Mas. Vivevo solo per il mare e nel mare. Lasciai infine anche la Flottiglia ed ebbi un peschereccio armato col quale facevo colpi di mano nel porto di Bona. Un Spitfire mitragliando, neanche a dirlo, mentre esausto dormivo, prolungò il mio sonno. Ve l’avevo detto… 
Maresciallo Maggiore Nicola Sgherzi (M.A. al V.M.)

È tuttora vivo e vegeto, è sempre in mezzo agli esplosivi dell’11 reggimento genio di Foggia. Nicola Sgherzi il 9 febbraio 1996, fece una passeggiata in una via di Sarajevo con una donna sulle spalle e la portò in salvo. Tutto qui? La donna era rimasta ferita attraversando inconsapevolmente un campo minato. Invocava aiuto, la gamba dilaniata, rischiava il dissanguamento. Nessuno osò entrare nel campo minato a soccorrerla. Nessuno, tranne Nicola Sgherzi, allora giovane sottufficiale alle prime missioni con i nuclei BOE (Bonifica Ordigni Esplosivi). Entrò nel giardino del diavolo, si caricò la robusta signora sulle spalle, tornò indietro. Semplice vero? Egli l’ha descritta più volte e in verità, la sua spiegazione appare semplice: ho camminato, dice, sulle stesse orme lasciate dalla signora. Quello che non dice è che le mine sono bestie feroci e bizzarre; se le calpesti con un peso, per esempio, non accade nulla. Se il peso raddoppia, com’è accaduto al ritorno, il botto è in agguato. Ma Sgherzi tornò sano e salvo, con la signora che lo carezzava:”Bravo italiano, bravo italiano”. Noi siamo contenti d’essere italiani come lui.
Ammiraglio Gino BIRINDELLI (M.O. al V.M.)

Il mare è il mio cielo, nell’onda con Elios Toschi, Luigi Ferraro ed Eugenio Wolk; militi oramai ignorati d’un paese spiaggiato, esausto. Fui decorato per le bizze d’un siluro e per aver salvato un disgraziato. Nulla rispetto al ricordo dei mozzi cui ordinai d’ospitare, tra fuoco, carbone e badili, i manipoli di parlamentari e Lor Signori, giunti sulla mia flotta per la consueta commedia: tutto bene, tutto perfetto, una bella mangiata e un bel parlare, soggetto predicato e… complimento. Cambia la rotta, Lor Signori schiaffeggiati nelle sale macchine, era il 1970, capirono che la Flotta stava morendo. E rinacque.

Più in alto l’animo mi vola per la corazzata Giulio Cesare, rubata dai sovietici per riparazione di guerra e ribattezzata “Novorossijsk”, come fosse vodka. Con Elios, Luigi, Eugenio e 1200 chili di TNT, regolammo il conto – notte del 29 ottobre 1955 – rada di Sebastopoli. Il destino ironico mi condusse fra Lor Signori, io avevo un solo polmone e pompava a tre quarti, loro un’anima a metà. Nessuno è perfetto, dopo tutto.

 

23 Agosto 1940: Nato maschio. di Antonio de Martini

IL CORRIERE DELLA COLLERA

Sono nato a mezzanotte. Poco prima dell’alba il radiogramma raggiunse mio padre che stava per attaccare un campo ribelle in Etiopia, nel Amhara.
I suoi ascari schierati nella notte fremevano di impazienza in attesa di lotta e bottino.

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COME FUI DICHIARATO PERSONA  NON GRATA DAGLI AYATOLLAH MENTRE ERO IN AFRICA.  di Maurizio Moreno

l’Amasciatore Maurizio Moreno  ci regala un’anteprima della sua avventurosa biografia.

Vorrei ricordare una disavventura capitatami durante la mia lunga carriera : una vicenda imprevista ed imprevidibile, scaturita inaspettatamente in una dichiarazione di « persona non grata » presa nei miei confronti…

Ero Ambasciatore nel Senegal, dove fui chiamato a presenziare alla cerimonia d’apertura dell’ atteso

Vertice dei Capi di Stato dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI) , svoltosi a Dakar nel lontano dicembre 1991. 

Seguii da vicino i lavori, nel ricordo di un altro evento cui avevo potuto assistere nel 1969 a Rabat (come allora Primo Segretario dell’Ambasciata) : l’OCI era stata infatti creata nell’occasione , su impulso del Re del Marocco, Hassan II, per la salvaguardia dei luoghi sacri dell’Islam ed il sostegno della causa palestinese, rappresentata da Yasser Arafat. Tale incontro storico era giunto all’indomani dell’incendio criminale della Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme.
Il Summit di Dakar, un’ennesima Conferenza di una grande portata, si rivelo’ deludente e inconcludente, per molti aspetti. Meno della meta’ dei Paesi membri era stato infatti rappresentato da Capi di Stato : presenti solo cinque leaders di Paesi arabi (su ventuno) , con all’ordine del giorno la spinosa controversia Iraq-Kuwait.

Mi accingevo, in chiusura dei lavori del Summit, a riferire al Ministero, quando appresi nel tardo pomeriggio dell’11 dicembre una brutta notizia, attraverso un lancio diffuso da Parigi dall’ Agence France Presse sotto il titolo “Italiane lanciano uova contro il Presidente iraniano Akbar Ali Hashemi Rafsanjani”.

Mi misi immediatamente in contatto con il Capo del Protocollo del Presidente senegalese, Abdou Diouf, che mi confermo’ l’accaduto , attirando la mia attenzione su un comunicato appena rilasciato sul versante dei « Mujaheddin » del Popolo iraniano. 
Egli stesso mi fece i nomi delle due ragazze direttamente coinvolte nella vicenda : si trattava di Patrizia Fiocchetti, cittadina italiana e di Hélène Lambrosio, cittadina francese. Entrambe compagne di due « Mujaheddin » ( attivi combattenti di opposizione al regime teocratico insediatosi in Iran ) erano riuscite ad introdursi nell’albergo, dove si svolgevano i lavori della Conferenza islamica, usando un « laissez-passer » giornalistico. Mentre le delegazioni si preparavano a lasciare la sede del Summit, le due ragazze, coperte dal tradizionale velo islamico , il « niqab », avevano tentato di colpire il Presidente Rafsanjani , lanciandogli delle uova , al grido di “assassino”. Un clamoroso gesto di protesta contro il regime degli Ayatollah.

Il Capo del Protocollo mi aggiunse che la Polizia senegalese era riuscita , non senza difficoltà , a prendere in custodia le due ragazze, sottraendole ai « Pasdaran », il c.d Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, incaricati di garantire la sicurezza del Capo dello Stato iraniano , che avevano subito cercato di catturarle.

Ne informai tempestivamente per telefono la Farnesina, che mi chiese di accertare rapidamente dove le due ragazze fossero ed in quali condizioni di salute si trovassero.

Feci inutilmente il giro di diversi posti di Polizia e della stessa prigione di Dakar, senza riuscire nell’immediatoad a reperirle. Incrociai nel frattempo l’Ambasciatore iraniano, mio vicino di casa, che si era messo anche lui alla ricerca delle due fanciulle.

Decisi quindi di andare direttamente dal Presidente della Repubblica, Abdou Diouf – personalità colta, sensibile, intelligente – che mi ricevette sul campo. Mi informo’ che la Fiocchetti e la Lambrosio si trovavano ormai al sicuro nelle mani della Polizia senegalese. Erano state trasferite, prudentemente, presso l’Ufficio della Polizia per gli stranieri presso il Porto di Dakar.

Il Presidente Diouf ritenne subito di assicurarmi che era intendimento delle Autorità senegalesi di attenersi rigorosamente allo « stato di diritto », processandole ed evitando loro la prospettiva di una deportazione in Iran : lo stesso m’invito’ a prendere contatto a tal fine con il Ministro della Giustizia.

Giunsi poco dopo all’Ufficio della Polizia degli stranieri, facendo visita alle due ragazze. Mi dissero che avevano già incontrato poco prima di me l’Ambasciatore dell’ Iran, che le aveva minacciate con la pena di morte, attraverso la « fatwa », sulla base della legge coranica.

Vidi il giorno dopo il Ministro della Giustizia e l’Ambasciatore di Francia. Concordammo con quest’ ultimo di nominare congiuntamente l’avvocato di fiducia dell’Ambasciata d’Italia, a tutela degli interessi della Fiocchetti e della stessa Lambrosio ( d’origine italiana ), in vista del processo da tenere entro una settimana. Raccomandammo entrambi al Ministro di favorire una decisione di espulsione delle due ragazze rispettivamente in Italia e in Francia, dato che erano entrate in Senegal con il loro passaporto europeo.

Fummo nello stesso tempo informati del trasferimento delle due ragazze in una caserma isolata, pulita e protetta, dove mi fu consentito di fornire loro due pasti giornalieri , preparati dal mio  cuoco Cherif e portati puntualmente dal mio bravo autista Abdulaye.

Dichiarai nell’occasione pubblicamente alla stampa l’opportunità di escludere l’ estradizione delle predette, nel rispetto della legge in vigore in Senegal, Paese democratico per eccelenza.

A quanto fui in grado di accertare Patrizia ed Hélène stavano del tutto sommato bene, essendo in attesa di un equo processo, inteso ad evitare loro il rischio di essere estradate in Iran, dove sarebbero andate incontro alla piu’ severa delle punizioni.

Qualche giorno dopo il Ministro della Giustizia mi confermo’ che il Tribunale di Dakar aveva fissato per l’indomani un’udienza di comparizione delle due ragazze. Non avendo alcuna ragione di sospettare che avessero compiuto un qualsiasi reato, l’Autorita’ giudiziaria le avrebbe immediatamente allontanate dal territorio dello Stato senegalese, mediante un decreto di espulsione. Mi chiese quindi di prenotare per loro un aereo, impegnandosi personalmente a farle accompagnare nell’immediato alla frontiera di uscita all’Aereoporto di Dakar – Léopold Sedar Senghor.

Ne informai subito la Farnesina, che aveva fortuitamente già in programma di riportare in Senegal lo stesso giorno, a bordo di un aereo affittato ad hoc, un centinaio di migranti irregolari senegalesi che l’Italia aveva per la prima volta deciso di espellere.

L’Ambasciatore di Francia mi chiese da parte sua di imbarcare sul nostro aereo la cittadina francese, espulsa insieme all’Italiana.

Conclusosi rapidamente il processo celebrato per direttissima di fronte al Tribunale, con il collega francese ci unimmo al convoglio di vetture dirette, sotto stretta scorta, all’Aereoporto con le due donne da rimpatriare.

Che sorpresa, vedere arrivare l’areoplano !!! Su di esso viaggiavano ben venti poliziotti e soltanto tre clandestini senegalesi ! Il forte nucleo del gruppo, si era dato alla fuga al momento di prendere il volo…Vidi partire felicemente le due ragazze, grazie al nostro aereo, in allegra compagnia con i nostri agenti !

La Fiochetti e la Lambrosio mi scrissero qualche tempo dopo dalla Germania, facendomi pervenire una lettera di vivo apprezzamento, estendendo i loro complimenti alle Autorita’ senegalesi.

Peraltro, negli stessi giorni mi fu dato di apprendere dalla stampa iraniana, tramite la nostra Ambasciata a Teheran, di esser stato dichiarato « persona non grata » – persona non gradita, inaccettabile – da parte della Repubblica Islamica dell’Iran, senza motivare la sua decisione…

Non sono stato da allora piu’ in grado di tornare a Teheran, dove ci ero stato nel 1976… come Capo di una Delegazione della Commissione di Finanziamento della Farnesina, al suo primo viaggio all’estero ( ci accolse grandiosamente ed affettuosamente Arduino Fornara, nella sua qualita’ d’Incaricato d’Affari a.i.. .)

L’ Ambasciatore iraniano, che incontrai a Roma nel 2001 come Direttore Generale per i Paesi europei, mi confermo’ confidenzialmente ancora una volta, ch’ero tuttora sulla « lista nera », sulla « black list ». Pazienza..che bei ricordi ho tuttora di un grande Paese, come l’Iran !

Patrizia Fiocchetti ha fatto da allora molta strada, divenendo attivo membro del CISDA, nato nel 1999 come Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, con sede a Milano.

Mi sia permesso di raccontare questo episodio, certamente critico, che rimane iscritto nella mia memoria e meriterebbe forse di essere ricordato.

Ginevra, 9 agosto 2015                                      

 È  IL 9 AGOSTO . ….ECCO PERCHÉ SO MOLTE COSE.

Francesco de Martini nacque a Damasco ( impero ottomano) nel 1903, dall’ing Antonio de Martini ( che lavorava a un ramo della ferroviaBerlino Bagdad) e da Sofia Mocadié. Ebbero cinque figli. Uno ogni 200 km circa di ferrovia.

La sorella maggiore, Maria,  era nata a Aleppo. Il fratello successivo, Umberto, a Deraa, al confine di quello che sarebbe diventato il regno di Transgiordania.

Per me, luoghi di villeggiatura e campi da calcio. Poi area di lavoro. 

Mio padre ebbe una vita molto piena. Wikipedia ha riportato solo la sua prima missione al servizio dell’Italia. 

http://Wikipedia Francesco de Martini.

A Giugno 1981, anno della sua morte, ne previde la data.” Morirò a fine novembre. ” morì il 26. 

PER RENZI VALE IL ” WAIT AND SEE” PERÒ CON QUALCHE DOMANDA. di Gic.

Febbraio 2014.

IL CORRIERE DELLA COLLERA

Ho giù detto in un commento a un post sul “Corriere della collera” che non mi pare sia corretto esprimere giudizi – di solito basati su parametri di “simpatia” o antipatia”- su Renzi e sul suo Governo. Correttezza vorrebbe

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