LA PREGHIERA ” DEGLI ALPINI” DI OGGI E L’ITALIA DI IERI. di Piero Laporta

Popolo d’eroi? Bastò una preghiera a spaventare un curato e un curato a terrorizzare il corpicino d’alcuni Alpini; sia memoria allora dei soldati veri.
MILITE IGNOTO

Sono qui dal 4 Novembre 1921, sebbene i ragazzi che mi vegliano siano molto più vecchi di me. Mi scelse Maria Bergamas, la madre di Antonio, di Trieste; fu un irredento, come si disse, passato di qua per combattere gli austriaci. Fui frantumato da una bomba vagante e precisissima; come accadde a migliaia d’altri, d’altro canto. Se non ci fossi stato io, Antonio a Trieste sarebbe ricordato solo per la società sportiva Edera, fondata nel 1904. Chiesero alla madre di scegliere un caduto non riconosciuto. Scelse me. Come mi chiamo? Ignoto Milite, ovviamente. Il nome iniziale non lo ricordo più; sono capofila degli eroi loro malgrado, sicché ne avrei fatto a meno ma oramai è tardi.

Sono l’unico eroe che non ha una decorazione al V.M. tuttavia non mi pesò visto com’era andata e come sta andando con la semina di medaglie. 

Le decorazioni furono ben motivate, spesso ma non sempre. Io non sono parte in causa e quindi qualche fatterello ve lo posso ricordare. 

Nel 1932 precisarono: ”Le decorazioni al valor militare sono concesse a coloro i quali, per compiere un atto di ardimento che avrebbe potuto omettersi senza mancare al dovere ed all’onore, abbiano affrontato scientemente, con insigne coraggio e con felice iniziativa, un grave e manifesto rischio personale in imprese belliche. La concessione di dette decorazioni può aver luogo tuttavia solo quando l’atto compiuto sia tale che possa costituire, sotto ogni aspetto, un esempio degno di essere imitato”. 

Precisazioni necessarie. In precedenza le medaglie andavano più che altro agli ufficiali e ai nobili. Prendete questa motivazione per la M.O. al V.M. “Per essersi distinto durante l’assedio e presa di Capua, 2 novembre 1860 ”, oppure quest’altra “Per il valore e l’intelligenza dimostrati sotto Gaeta, 12 novembre 1860”; con le stesse motivazioni a me non dettero neppure una licenza di tre giorni.

Se i miei amici campani avessero letto la motivazione per la M.O. al V.M. del principe Eugenio Emanuele di Savoia Carignano: ”Per essersi distinto quale luogotenente generale di S.M. il Re nelle province meridionali, Gaeta 1861”, si sarebbero arrabbiati due volte perché la “distinzione” premiava il principe a danno dei loro nonni. Allo stesso modo i fanti abruzzesi avrebbero avuto da ridire per quell’altro che fu insignito:” Per l’intelligenza, l’energia ed il valore dimostrati nel concorrere a formare il piano e a dirigere le operazioni degli Abruzzi e dell’Ascolano contro i briganti e condurre una colonna all’assalto di Civitella del Tronto”.

Piccola curiosità: le medaglie per “benemerenza patriottiche”, distribuite da Vittorio Emanuele III fra il 1926 e il 1941, per celebrare la compartecipazione delle città italiane al “Risorgimento Nazionale”, non decorarono alcuna delle città pugliesi, abruzzesi o calabre. 

Negli ultimi tempi tuttavia hanno ripreso a distribuire ricompense con la stessa generosità che usava il Regno di Piemonte al suo notabilato. Stabilì il Presidente della Repubblica, il 18 luglio 1986, con suo decreto:”Le ricompense al Valor Militare sono: 1) Ordine Militare d’Italia (nelle cinque classi); 2) Medaglie al valor militare (ivi compresa la croce di guerra)”. 

I nuovi notabili repubblicanini si domandarono come seguire le orme dei piemontesi. In questi casi basta una commissione di “esperti” che docilmente sancisce, come sancì il 21 maggio 2003, che l’Ordine Militare d’Italia ha natura di “ordine equestre” (spericolata contiguità coi somari!) potendosi dunque conferire benemerenze distinte dal valor militare, così assegnabile a tanti benemeriti equestranti, troppi. 

Nel frattempo le ricompense si moltiplicarono, con triplici ordini di medaglie (oro, argento e bronzo) al merito dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, dei Carabinieri, della Polizia di Stato e via ricompensando. Sono in attesa Guardia di Finanza, Polizia Forestale, Polizia penitenziaria e polizia Postale, polizia doganale, mortuaria, sanitaria e guardie campestri. Tutti valorosi repubblicanini.

Acqua passata o, se preferite, sangue passato. Torniamo a me e non vi dirò se provengo dalla Valtellina, dalle colline liguri, dai boschi garganici o dai dammusi di Pantelleria. Rappresento tutti, anche quelli che non vogliono esserlo. La Grande Guerra mi costò la pelle. Se ora tuttavia la osservo dai palazzi dell’Unione Europea, appare quello che è: una follia. Ancora più folle sarebbe iniziarne un’altra per cancellare quella sbagliata e per gli interessi dei repubblicanini. 

Adesso ascoltate i racconti di questi miei amici.

 

Enrico Toti (M.O. al V.M.)

Tre centri di reclutamento, tre volte respinto. A 33 anni, senza una gamba, dopo tutto risparmiate una scarpa: “Eccellenza, con e senza gamba ho girato il mondo – il generale mi guardava annoiato – A quindici anni m’imbarcai sul Fieramosca, poi su corazzata Emanuele Filiberto, infine incrociatore Coatit”. Lascio la Marina nel 1905, sono nelle ferrovie e perdo una gamba sulle rotaie, 10 lire di pensione e tempo a disposizione, inforcai la bici: da Parigi a Varsavia, dal Polo al deserto nubiano.

Era il 1916. Mi ammisero finalmente fra gli ausiliari della brigata Aqui. Ci stavo stretto. Un giorno mi trovai a combattere coi bersaglieri ciclisti del 3° Reggimento. Prendemmo Gorizia, poi attacco a Quota 85, est di Monfalcone. Non so dirvi quante volte ferito e da chi; contabilità trascurabili.

Lanciai la gruccia agli austriaci, gridando “Nun moro io!”. Mi sbagliavo, ovvio, ma avevo troppa fretta per accorgermene. Abbagliato dalla Sua luce, la Sua mano mi carezza ancora.

Tenente Fenafly COLEMAN DE WITT (M.O. al V.M.)

Molti di voi non lo ricordano più, ma ci fu un tempo in cui l’Italia, che era Italia, donava aerei agli Stati Uniti, aerei da guerra. I piloti statunitensi, come me, venivano ad addestrarsi sui Caproni. La 6^ squadriglia, la mia, ebbe i Caproni Ca.5 ad agosto del 1918. Ci alzammo in volo anche il pomeriggio del 27 ottobre. Quattro giorni prima partiva l’ultima offensiva verso Ceneda e Serravalle, i due villaggi, uniti dopo l’armistizio col nome di Vittorio Veneto. Volavamo in quel cielo. Ci sentivamo abbastanza sicuri. L’Austria Ungheria si sarebbe arresa due giorni dopo. Gli oberleutnant Roman Schmid e Emmeric von Horvàt giocavano tuttavia la partita austriaca sino all’ultima fiche. Ci vennero addosso con cinque caccia: era gran parte dell’aviazione viennese rimasta in quel settore. James Bahl, il mio secondo, e I due italiani dell’equipaggio, il sergente Tarcisio Cantarutti e il sottotenente Vincenzo Cutello, si comportarono splendidamente. Le nostre mitragliatrici tirarono giù due caccia austriaci. Erano troppi ugualmente. Un attimo dopo la terra ci venne incontro, i motori fiammeggiavano. Dettero la medaglia solo a me, perché non avevo evitato la battaglia. I due italiani, ovvio, sono dimenticati. 
Capitano pilota Carlo Emanuele BUSCAGLIA (M.O. al V.M.)

Aerosilurante, “arma nuovissima”, dicevano. Gli inglesi avevano “anche” gli Swordfish, che silurarono nella rada di Taranto, novembre del ’40. Noi a un certo punto avemmo “solo” il Gobbo Maledetto e il Mas. Sul mare ci pensavano i Birindelli, nel cielo toccava a noi fare “uragani di ferro e fuoco”. Il mio primo assalto il 27 Agosto 1940. I primi esperimenti risalivano al 1914. Oh, gli stati maggiori: 36 anni per capire che occorre cabrare, picchiare, volo orizzontale a 300 chilometri orari, quota 100 metri, sgancio a 700 metri dal bersaglio, virata evasiva piatta, senza esporre l’ali a farti impallinare. 32 operazioni per mille picchiate così. 1942, 12 novembre 1942, uno Spitfire mi sbatte in mare. Sono prigioniero. Credutomi morto, i miei compagni passati a Salò m’intitolano lo stormo d’aerosiluranti. Io, tornato vivo in Italia, vivo e combatto sull’altro fronte. Quanto non potè Spitfire, riuscì a un banale incidente di volo, il 23 agosto del ’44, a tre giorni dal quarto anniversario del primo assalto. Avevo fretta, avevo fretta.
Carabiniere Vittoriano CIMARRUSTI (M.O. al V.M.)

Di me s’avvedono i cittadini che godono o patiscono i servigi d’una stazione di Carabinieri, nella cui sala d’attesa c’è una delle stampe volute dal generale Giovanni De Lorenzo: sono in ginocchio su una trincea esposta all’attacco, fra i miei compagni caduti, incito i rimanenti, mentre lancio l’ultima bomba a mano. Era cominciata alle 7 del mattino e non vidi il tramonto oltre le 16. 

Gunu Gadu, nell’Ogaden, era un baluardo presidiato da 30.000 etiopici, trincerati tra caverne e alberi secolari, le armi organizzate per un terribile fuoco incrociato. 

Sui manuali è scritto che un tale caposaldo non lo si assale con gli autocarri e allo scoperto. Noi assalimmo così. Quando difettano le tattiche abbondano gli eroi. Quel giorno guadagnarono una medaglia anche il capitano Antonio Bonsignore e il collega Mario Ghisieni. 

È un errore la guerra e, in questo caso, è un errore anche la tattica, ma il sacrificio dei soldati è vero. Eravamo soldati, insegnamo ad esserlo alle generazioni successive.
Gen. B. CC Enrico GALVALIGI (M.O. al V.C.)

Sacrificai la vita per dare al generale Dalla Chiesa una collaborazione senza la quale egli avrebbe fallito: la sorveglianza delle carceri di massima sicurezza – i penitenziari di Trani, Fossombrone, l’Asinara, Nuoro e Cuneo – dove erano detenuti i più pericolosi terroristi d’Italia.

Dopo la morte di Aldo Moro, furono catturati numerosi terroristi, i quali non volevano restare in carcere. Nel 1980 ho represso, senza spargimento di sangue, con l’aiuto dei GIS, la rivolta scoppiata nel carcere di Trani. Un togato m’additò ai terroristi. M’uccisero la sera del 31 dicembre 1980. 

Dove sono ora le medaglie contano poco, tuttavia la medaglia al “valore civile” a me, soldato fino al midollo, a me non piace. Quelli della strage di via Rasella ebbero la medaglia al valor militare per la macelleria. Il mio “valore militare” dissero poteva risolversi in indiretto riconoscimento da combattenti ai miei assassini. Farisei. Temevano a tal punto quel riconoscimento che poi li hanno messi tutti fuori, con sussidi e aiutini vari.

Capitano di cavalleria Antonio Vinaccia (M.A. al V.M.)

Presi la medaglia, ma voglio parlarvi del mio reggimento, “Alessandria”, gli ultimi cavalieri che caricarono in formazione, stendardo in testa. Ore 18.30 del 17 Ottobre, a Donje Poloj.

Tre sbarramenti di titini di fronte al reggimento; maciullato se s’arresta, dai partigiani sui fianchi e a tergo. “Il tuo ultimo squillo sarà di carica” è scritto sulla tromba di Petroni, comandante dello squadrone in avanguardia. La tromba dissolve cautele. Petroni travolge il primo sbarramento. Alle spalle arrivano trecento cavalli: squadrone comando coi mitraglieri, comanda Antonio Ajmone Cat. A destra e sinistra Alciator e Comotti portano i loro nei varchi aperti dai precedenti, aprendone ulteriori. Tre sbarramenti superati sciabolando.

Io? In retroguardia… Facile? Non capite nulla di battaglie. Carica a fronte rovesciato, quattro volte carica per proteggere la sezione d’artiglieria. “Capo pezzo! Alzo zero! Fuoco anche se mi vedi in mezzo al nemico”. Pare fossero le mie parole prima dell’ultima mischia. Non non tenevo appunti dei miei ordini. Possibile, dopo tutto.

S.Ten. del genio Ettore Rosso (M.O. al V.M.)

L’8 settembre 1943 non fuggii. Avevo 23 anni, studente al politecnico. Non scappai, mi arruolai. Fui comandante di plotone del 134° genio della Divisione corazzata Ariete. A difendere Roma l’Ariete apprestò tre capisaldi: Manziana, Bracciano e Monterosi; mio quest’ultimo.

Alle quattro del mattino, 9 settembre, mentre posavamo mine arrivò il Kampfgruppe Groesser della 3a Divisione Panzergrenadieren, 30 carri armati e due battaglioni granatieri. 

Disposi di traverso sulla strada i due autocarri carichi di mine e tritolo, a impedire il passaggio alla colonna tedesca. Il comandante del Kampfgruppe ci intimò di sgomberare la strada entro quindici minuti.

Mandai via tutti. Rimasero con me quattro volontari: genieri Pietro Colombo, Gino Obici, Gelindo Trombini e Augusto Zaccanti. Dieci minuti per preparare le micce, gl’inneschi accesi mentre la colonna tedesca s’avvicinava. Lo scoppio sorprese il tedesco, non noi; età media 21 anni, io ne avevo 23, ripeterlo vi giovi.
Capitano di Corvetta Salvatore Todaro (M.O. al V. M.)

L’ammiraglio Karl Dönitz mi schernì: «Don Chisciotte del mare». Mi convocò perché, affondato col cannone del mio sommergibile il piroscafo belga Karbalo, mi fermai, raccolsi i profughi, li rimorchiai su una zattera per quattro giorni e quando il cavo di rimorchio si spezzò, ospitai i naufraghi sul sommergibile prima di sbarcarli.

“Ammiraglio lei non può capirmi perché non ha duemila anni di storia alle spalle” dicono che rispondessi allo sprezzante Dönitz. Non ricordo, ne ho fatte tante…

Continuai comunque a salvare naufraghi, ad attaccare le navi anche col cannone e non dormivo mai perché sapevo che sarei morto mentre dormivo, lo sapevo.

Dopo numerose azioni col sommergibile, stanco delle critiche per i miei metodi di guerra, me ne andai nella X Flottiglia Mas. Vivevo solo per il mare e nel mare. Lasciai infine anche la Flottiglia ed ebbi un peschereccio armato col quale facevo colpi di mano nel porto di Bona. Un Spitfire mitragliando, neanche a dirlo, mentre esausto dormivo, prolungò il mio sonno. Ve l’avevo detto… 
Maresciallo Maggiore Nicola Sgherzi (M.A. al V.M.)

È tuttora vivo e vegeto, è sempre in mezzo agli esplosivi dell’11 reggimento genio di Foggia. Nicola Sgherzi il 9 febbraio 1996, fece una passeggiata in una via di Sarajevo con una donna sulle spalle e la portò in salvo. Tutto qui? La donna era rimasta ferita attraversando inconsapevolmente un campo minato. Invocava aiuto, la gamba dilaniata, rischiava il dissanguamento. Nessuno osò entrare nel campo minato a soccorrerla. Nessuno, tranne Nicola Sgherzi, allora giovane sottufficiale alle prime missioni con i nuclei BOE (Bonifica Ordigni Esplosivi). Entrò nel giardino del diavolo, si caricò la robusta signora sulle spalle, tornò indietro. Semplice vero? Egli l’ha descritta più volte e in verità, la sua spiegazione appare semplice: ho camminato, dice, sulle stesse orme lasciate dalla signora. Quello che non dice è che le mine sono bestie feroci e bizzarre; se le calpesti con un peso, per esempio, non accade nulla. Se il peso raddoppia, com’è accaduto al ritorno, il botto è in agguato. Ma Sgherzi tornò sano e salvo, con la signora che lo carezzava:”Bravo italiano, bravo italiano”. Noi siamo contenti d’essere italiani come lui.
Ammiraglio Gino BIRINDELLI (M.O. al V.M.)

Il mare è il mio cielo, nell’onda con Elios Toschi, Luigi Ferraro ed Eugenio Wolk; militi oramai ignorati d’un paese spiaggiato, esausto. Fui decorato per le bizze d’un siluro e per aver salvato un disgraziato. Nulla rispetto al ricordo dei mozzi cui ordinai d’ospitare, tra fuoco, carbone e badili, i manipoli di parlamentari e Lor Signori, giunti sulla mia flotta per la consueta commedia: tutto bene, tutto perfetto, una bella mangiata e un bel parlare, soggetto predicato e… complimento. Cambia la rotta, Lor Signori schiaffeggiati nelle sale macchine, era il 1970, capirono che la Flotta stava morendo. E rinacque.

Più in alto l’animo mi vola per la corazzata Giulio Cesare, rubata dai sovietici per riparazione di guerra e ribattezzata “Novorossijsk”, come fosse vodka. Con Elios, Luigi, Eugenio e 1200 chili di TNT, regolammo il conto – notte del 29 ottobre 1955 – rada di Sebastopoli. Il destino ironico mi condusse fra Lor Signori, io avevo un solo polmone e pompava a tre quarti, loro un’anima a metà. Nessuno è perfetto, dopo tutto.

 

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Commenti

  • gicecca  Il agosto 25, 2015 alle 7:23 am

    Caro Antonio, bellissimo. Oltre tutto, questi “medagliati” scrivono, dall’al di là, molto bene. Ne manca uno, ma forse ti scrive personalmente e spesso. giC

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