In sintesi, il prof. Hudson sostiene che le misure di austerità che ora vengono invocate e varate dai governi europei dell’area euro – che riducono il welfare, colpiscono i lavoratori e i loro sindacati, mettono nelle mani di privati beni, imprese e servizi pubblici – vanno sostanzialmente a beneficio delle banche, che sono responsabili del credito facile seguito dalle sofferenze, e di coloro che acquistano i beni e le imprese che gli Stati dovranno vendere per coprire i propri deficit. Hudson sostiene anche che i privati non sempre garantiscono maggiore efficienza, ma acquisiscono i profitti e diventano una classe di oligarchi. E se sono stranieri portano i profitti all’estero. Inoltre, le banche traggono benefici dalla regola che impedisce alla BCE di finanziare i deficit degli Stati emettendo nuova moneta; infatti gli Stati sono così costretti a ricorrere al mercato, cioè alle banche, pagando interessi elevati. Secondo Hudson, sarebbe preferibile che la BCE finanziasse i deficit, come fanno le banche centrali di Usa e Regno Unito, senza per questo, entro certi limiti, provocare inflazione. L’analisi di Hudson contiene molte verità ed è piuttosto suggestiva, e preoccupante.
Il prof. Hudson manca però di inserire i problemi dell’Europa, e di tutti i paesi di antica industrializzazione, nel quadro della globalizzazione. Quelle economie hanno perduto competitività a fronte degli sviluppi industriali di paesi come la Cina dotati di grandi disponibilità di manodopera a basso costo. I deficit di bilancio di paesi come l’Italia sono originati dal fatto che molte delle attività industriali che hanno prodotto nel passato i redditi su cui è stato costruito il sistema di welfare non sono più competitive sui mercati internazionali e hanno quindi smesso di esportare, prima, e di produrre, poi; mentre i loro prodotti sono stati sostituiti da quelli di importazione dai paesi di nuova industrializzazione. L’intero “sistema paese” contribuisce alla perdita di competitività con l’elefantiasi della pubblica amministrazione, l’antica e superata regolamentazione del fattore lavoro, l’inefficienza della giustizia civile, il peso del welfare. E, nel caso dell’Italia, il mancato adeguamento delle infrastrutture, a causa di decenni di paralisi dovuta all’eccessivo indebitamento dello Stato causato , appunto, dalle dette inefficienze.
Si deve quindi ammettere che le misure di austerità chieste ai Paesi europei servono per tentare di recuperare competitività. Se fosse possibile finanziare il deficit dello Stato stampando nuova moneta, mancherebbero gli stimoli per ridare efficienza al sistema.
Guardando alle misure finora varate dal governo Monti, si deve osservare che solo la riforma delle pensioni agisce chiaramente nella direzione di ridare efficienza al sistema (ma penalizzando i consumi), mentre tutte le altre misure di aggravio delle tasse servono solo per far cassa senza incidere sulla efficienza del sistema. La riduzione dei costi della politica, compresa l’abolizione delle provincie e la riduzione del numero dei parlamentari, sarebbe stata positiva, ma è di la da venire. La riforma della regolamentazione del lavoro è per ora una pia intenzione e solo l’atmosfera di grave crisi (e la tenacia di Marchionne) ha portato i sindacati a trattare la riforma del contratto di lavoro della Fiat, realizzando così un passo avanti per ridare competitività ad un importante settore industriale (ma uno dei sindacati è ancora schierato a difendere schemi non più sostenibili). Non si vede la radicale riforma della giustizia civile necessaria per ridare certezza ai diritti e recuperare la fiducia degli investitori esteri. Gli investimenti nelle strutture sono ridotti al minimo a causa delle difficoltà di finanziamento e delle miopi contestazioni dei “Non nel mio giardino”. E l’aggravarsi delle tassazioni induce molte imprese a studiare nuove delocalizzazioni.
Quanto alle privatizzazioni annunciate come altra misura di risanamento, dubito che siano la soluzione miracolosa che ridarà efficienza al sistema. Trovo azzeccate le tesi in proposito di Hudson. I miglioramenti della gestione dei servizi potrebbero essere ottenuti anche mantenendo la proprietà pubblica se si sapesse sottrarre le gestioni dalle ingerenze politico-clientelari. Resta allora anche qui la sola funzione di far cassa.
Siamo quindi lontano dall’obbiettivo del recupero della competitività e credo che la crisi generata dalla globalizzazione si protrarrà a lungo, con alti e bassi ed episodi ricorrenti di nuove strette. Credo che gli Stati in questa contingenza dovrebbero assumere un ruolo più attivo nella gestione della economia. In particolare l’Italia dovrebbe far leva sulla posizione geografica e su una posizione politica da ricostruire facendo leva su antichi meriti nelle relazioni con i paesi emergenti, per sviluppare relazioni speciali con molti di quei paesi, capaci di generare scambi, sviluppo e reddito.
[1] “Europe’s deadly transition from social democracy to oligarchy” apparso il 3 Dicembre 2011 su Frankfurter Allgemeine Zeitung con il titolo “Der Krieg der Banken gegen das
Volk”