LA RASSEGNA STAMPA DI GiC. DEL 20 MARZO

PROVVIDENZIALE LA DISPONIBILITÀ DI Gic. A OFFRIRE QUESTA RASSEGNA STAMPA IN UN MOMENTO IN CUI UN BLOG SEGUITO DA UNA PERSONA SOLA NON PUÒ ASSICURARE LA COPERTURA DEGLI EVENTI MONDIALI NEL LORO ACCAVALLARSI. LO RINGRAZIO A NOME DI TUTTI. TRATTANDOSI DI UNA RASSEGNA DI QUEL CHE DICE LA STAMPA, NON NECESSARIAMENTE RISPECCHIA LA NOSTRA POSIZIONE SUI PROBLEMI. LO SCOPO È NON FAR PERDERE DI VISTA I PROLEMI. A de M.

NICOSIA, 19. Dopo il NO del Parlamento cipriota,
rivisto l’accordo per il salvataggio di Cipro, la riunione telefonica di ieri sera dell’Eurogruppo ha confermato i prestiti per dieci miliardi di euro per Nicosia già decisi nel summit di venerdì scorso, ma ha ridefinito i prelievi sui conti correnti inferiori ai 100.000 euro. I ministri dell’Economia e delle Finanze dei Paesi con la moneta unica avevano deciso un prelievo eccezionale del 6,75 per cento sui depositi bancari inferiori a 100.000 euro e del 9,9 per cento su quelli con somme superiori. Ma, si legge nel comunicato stampa diffuso dal presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, al termine della conferenza telefonica di circa due ore, sui depositi con meno di 100.000 euro Le autorità cipriote introdurranno ora una maggiore progressività nel prelievo una tantum rispetto a quanto deciso il 16 marzo. Spetta ora al Governo di Nicosia procedere, ma deve farlo in modo da non modificare la somma totale. La misura, sottolinea Dijsselbloem, è necessaria. La maggiore progressività nel prelievo dovrà comunque garantire che l’ammontare globale degli aiuti finanziari si mantenga pari a 10 miliardi di euro. Dopo la festività di ieri, il Governo ha disposto la chiusura delle banche anche oggi e domani, per evitare un assalto agli sportelli da parte dei correntisti intenzionati a ritirare i propri soldi. L’Eurogruppo ha sollecitato una rapida decisione da parte delle autorità e del Parlamento per attuare rapidamente le misure concordate. Il caso Cipro ha avuto un duro impatto sui mercati finanziari e ha scatenato l’ira della Russia, sede di molte società con asset parcheggiati nelle banche dell’isola mediterranea.

PECHINO, 19. Stati Uniti e Cina «hanno enormi interessi in comune, ma, inevitabilmente, anche differenze». Questo il messaggio lanciato oggi dal presidente cinese, Xi Jinping, ricevendo a Pechino il segretario americano al Tesoro, Jacob Lew. È dunque fondamentale — ha aggiunto Xi Jinping — « c o n s i d e r a re questa relazione da un punto di vista strategico e in una prospettiva di lungo termine». La visita di Lew arriva in un momento molto delicato nei rapporti tra le due grandi potenze economiche, dopo le voci di presunti attacchi informatici cinesi contro alcune aziende americane, molti dei quali, secondo la stampa, supportati dal Governo centrale della Repubblica popolare. Pechino ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento negli attacchi. Un altro argomento di primo piano nelle discussioni sarà l’economia e, in particolare, la questione valutaria e le riforme. Washington auspica infatti una maggiore apertura del mercato cinese, così come un maggiore apprezzamento dello yuan (la moneta cinese). Più volte in passato le autorità americane hanno accusato le autorità di Pechino di compiere una svalutazione competitiva della propria moneta. Intanto, il Governo di Pechino ha comunicato oggi che gli investimenti stranieri diretti in Cina sono aumentati a febbraio 2013 del 6,32 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il valore del totale degli investimenti stranieri a febbraio si è attestato a 8,21 miliardi di dollari. Il primo aumento dopo otto mesi di declino, secondo gli analisti ministeriali, deriva da una rinnovata fiducia nella competitività.

NEW YORK, 19. Schiaffo della Corte suprema statunitense a Goldman Sachs: è stato infatti respinto l’appello della banca contro la class action con la quale è accusata di aver fornito informazioni fuorvianti agli investitori su alcune offerte di titoli legati ai mutui. La decisione della Corte suprema di non accogliere l’appello di Goldman Sachs fa restare in vigore quanto deciso in precedenza dalla Corte d’appello di New York, secondo la quale l’investitore istituzionale Neca-Ibew Health & Welfare Fund ha il diritto di avanzare azioni legali contro la banche anche per offerte legate ai mutui nelle quali non ha investito.

ROMA, 19. Il Mezzogiorno italiano «è abbandonato a se stesso» con redditi scesi a livelli più bassi della Grecia e il pil in forte recessione con un decremento del 10 per cento tra il 2007 e il 2012 a fronte della flessione del 5,7 per cento registrata nel centro-nord. È quanto emerge dal rapporto La crisi sociale del Mezzogiorno realizzato dal Censis e presentato oggi a Roma. Nei cinque anni della crisi, il pil italiano ha perso 113 miliardi di euro. Di questi, 72 miliardi di euro si sono persi al centro-nord e 41 miliardi (pari al 36 per cento) al Sud. Ma la recessione attuale — evidenzia il Censis — è solo l’ultimo tassello di una serie di criticità che si sono stratificate nel tempo: piani di governo poco chiari, una burocrazia lenta nella gestione delle risorse pubbliche, infrastrutture scarsamente competitive, una limitata apertura ai mercati esteri e un forte razionamento del credito hanno indebolito il sistema Mezzogiorno fino quasi a spezzarlo. Negli ultimi decenni il pil pro capite meridionale è rimasto in modo stabile intorno al 57 per cento di quello del centro-nord, testimoniando — secondo il Censis — l’inefficacia delle politiche di sostegno allo sviluppo messe in atto, che non hanno saputo garantire maggiore occupazione, nuova imprenditorialità, migliore coesione sociale, modernizzazione dell’offerta dei servizi pubblici. La ricerca confronta il reddito pro capite delle tre regioni più ricche e più povere dei grandi paesi dell’area dell’euro: l’Italia ha il maggior numero di regioni con meno di 20.000 euro pro capite, per un totale di sette regioni: più delle sei della Spagna, delle quattro della Francia e dell’unica della Germania.

NEW YORK, 19. Hanno preso il via presso il quartier generale dell’Onu, a New York, le negoziazioni per elaborare il primo Trattato internazionale sul commercio delle armi: una strada che già dalle prime battute si rivela tutta in salita. Per due settimane, i rappresentanti dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite cercheranno di trovare l’accordo su un documento che ottenga anche il consenso dell’Amministrazione di Washington, sinora restia a firmare. Il trattato dovrà stabilire standard condivisi per il commercio internazionale di armi convenzionali, come carri armati, artiglieria, navi da guerra, missili e armi leggere. L’ultimo tentativo di negoziazione al Palazzo di Vetro, nel luglio scorso, si era concluso con un nulla di fatto, proprio perché gli Stati Uniti, la Russia e la Cina avevano chiesto più tempo. «L’assenza di regole nel commercio internazionale delle armi è inspiegabile», ha affermato in una nota il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, dando il via ai lavori e ricordando che «la violenza armata ogni anno uccide mezzo milione di persone». Venerdì scorso, il segretario di Stato americano, John Kerry, aveva dichiarato che gli Stati Uniti — primi produttori al mondo di armi, con il 30 per cento delle esportazioni globali nel periodo 2008-2012 — sono pronti per un trattato forte, ma non accetteranno mai un documento che «attenti al secondo emendamento della Costituzione americana, quello che riconosce a ogni cittadino il diritto di possedere un’arma».

WASHINGTON, 19. Alla vigilia di un delicato viaggio in Israele e nei Territori palestinesi in Cisgiordania, e con un occhio attento alla crisi siriana, Barack Obama si rivolge all’Iran per aprire un nuovo dialogo sulla questione nucleare. Ieri, in un video messaggio diffuso dalla Casa Bianca, il presidente statunitense ha lanciato un invito molto chiaro alla distensione. In occasione del Nowruz, il nuovo anno iraniano, Obama ha indirizzato un appello al Governo di Teheran affinché intraprenda «immediati e significativi passi» per ridurre la tensione sul programma nucleare, chiedendo l’apertura di una nuova stagione di dialogo e di collaborazione. Pochi giorni fa Obama aveva detto, in un’intervista a una televisione israeliana, che «ci vorrà un anno o poco più prima che l’Iran abbia la bomba nucleare», avvertendo che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di permettere a Teheran di «andarci così vicino» e che «tutte le opzioni restano sul tavolo». Nel video diffuso dalla Casa Bianca, il presidente ha sottolineato di aver sempre offerto «al Governo iraniano una possibilità: se è pronto a fare fronte ai suoi doveri internazionali, ci potrebbe essere un nuovo rapporto tra i nostri due Paesi, e l’Iran potrebbe iniziare a tornare nel suo giusto posto nella comunità delle Nazioni». I leader iraniani — ha aggiunto Obama — «dicono che il loro programma nucleare è finalizzato alla ricerca medica e all’elettricità», ma finora, «non sono stati capaci di convincere la comunità internazionale». Il presidente ha quindi ricordato «le serie e crescenti preoccupazioni» nel mondo sul programma nucleare iraniano, che a suo avviso «minacciano la pace e la sicurezza nella regione e oltre». È giunto il momento «che il Governo dell’Iran intraprenda passi significativi per ridurre la tensione e per lavorare a una soluzione a lungo termine della questione nucleare», per la quale «il mondo è unito, mentre l’Iran è isolato». Obama ha infine sottolineato che «gli Stati Uniti preferiscono risolvere la questione pacificamente, attraverso la diplomazia» e «se come i leader iraniani affermano, il loro programma nucleare è per scopi pacifici, questa è la base per una soluzione pratica». Domani, mercoledì, il presidente Obama si recherà in Israele e nei Territori palestinesi in Cisgiordania. Si tratta — come è stato sottolineato — di un viaggio di fondamentale importanza in un momento delicatissimo. Proprio ieri, con 68 voti a favore e 48 contrari, la Knesset (il Parlamento israeliano) ha concesso la fiducia al nuovo Governo, guidato da Benjamin Netanyahu.

BAGHDAD, 19. Ancora violenze a Baghdad. Questa mattina cinquanta persone sono rimaste uccise in una serie di attentati. Circa novanta i feriti. Gli attacchi hanno avuto luogo principalmente nelle aree sciite della capitale irachena.

NAIROBI, 19. Il primo ministro uscente del Kenya, Raila Odinga, ha rivendicato ieri la vittoria nelle presidenziali del 4 marzo scorso, dopo aver presentato ricorso alla Corte suprema contro la decisione della commissione elettorale di attribuirla al suo avversario, Uhuru Kenyatta. Secondo la commissione, Kenyatta ha ottenuto al primo turno il 50,7 per cento dei voti contro il 43,28 per cento di Odinga, evitando così il ballottaggio per circa ottomila voti. Odinga ha invece accusato i responsabili dello scrutinio di aver manipolato il risultato. «Nel 2007 avevo vinto le elezioni generali, ma la vittoria ci fu rubata. Questa volta, abbiamo detto di no, perché non accada mai più» ha detto Odinga. Secondo il primo ministro, «problemi del genere giganteggiano rispetto a qualsiasi altra cosa in occasione di qualunque consultazione del passato». L’affermazione appare particolarmente forte in considerazione del fatto che nel 2007 la decisione della commissione elettorale di attribuire la vittoria, in quel caso al ballottaggio, all’attuale presidente uscente Mwai Kibaki, fu seguita da mesi di scontri tra gruppi kikuyu, l’etnia di Kibaki e di Kenyatta, e altre etnie che sostenevano Odinga. Alla fine intervenne l’Onu e fu raggiunto un accordo, in base al quale Kibaki potè insediarsi alla presidenza mentre per Odinga fu creata la carica, fino ad allora inesistente, di primo ministro. In attesa della decisione della Corte suprema, Odinga ha invitato alla calma i propri sostenitori, ma proprio ieri la polizia ha fatto ricorso ai lacrimogeni per disperdere una loro manifestazione.

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