La risposta alla LETTERA DAL CANADA di E. Zangrando

 Pubblico volentieri la risposata alla lettera canadese dell’amico Ceccarelli.  Dai tempi di Beccaria  si discute sulla congruità delle pene rispetto ai delitti.  Credo che il problema sia che lo Stato  debba  assicurare la pubblica quiete, mentre l’organizzazione penitenziaria – dunque in sottordine –  possa cercare di recuperare il colpevole.  Da noi l’obbligo di recupero fa premio sulla necessità della sicurezza.

  Comunque, chiedo a tutti, per evitarmi fatiche  superflue, di usare le finestre apposite a fine articolo per i commenti e le risposte.  GRAZIE !

Caro Gianni approfitto dell’assenza di mio figlio e mia nuora per rispondere alla lettera dal Canadà (vera o verosimile che sia). Più che a rispondere – non ho risposte da dare perché non ho certezze che mi sorreggono – la lettera mi induce a riflettere e a pormi qualche domanda. Non è la prima volta che mi pongo il problema delle vittime dei delitti spesso lasciate sole con il loro dolore ad affrontare le conseguenze terribili di una violenza mai giustificata né giustificabile. Chi ha commesso reati di tale portata è giusto che sconti un’adeguata pena. Ed è su questi ultimi, sui rei, che cercherò di esprimere qualche considerazione così come la lettera sembra voler indirizzare l’attenzione quando evidenzia che per quanto dura sia la condizione di un recluso è sempre meno grave di quella della vittima e dei suoi familiari. Un’opinione largamente condivisibile.

Ma perché una pena viene comminata? Ecco la prima domanda. Per vendetta? Per allontanare una persona pericolosa? Per soddisfare il bisogno di sicurezza delle persone che non si sentono mai rassicurate abbastanza e chiedono misure sempre più dure?  Per recuperare chi delinque a un livello di responsabilità e civiltà tale da poter essere riammesso nella società?

Certo i paesi che prevedono la pena capitale escludono, almeno per chi commette i reati più efferati, la possibilità di un recupero. Ma quali sono poi i delitti più efferati? Ecco un’altra domanda che può essere da taluni imputata di relativismo, come se questo fosse il peggiore dei mali. In certe paesi ci sono persone in attesa di essere giustiziate perché imputate di infedeltà coniugale. Paese che vai civiltà (?) che trovi. Da noi, in Italia, il massimo della pena è l’ergastolo, quando nella sentenza è scritto “fine pena mai”. Questo provvedimento, che esclude la possibilità di un ravvedimento o di un cambiamento, per me equivale a una sentenza capitale perché condanna l’imputato a morire di prigione e non so se è peggio un’iniezione letale o una morte lenta in condizioni carcerarie spesso disumane.

È giusto che le persone “libere” si disinteressino del tutto della sorte dei reclusi che, se stanno come stanno, ben gli sta!, se la sono meritata? Ecco un’altra domanda che si pone alla coscienza di un cittadino che non intenda chiudere gli occhi di fronte a una umanità che vive una realtà di gravissimo degrado. Le testimonianze degli operatori – guardie carcerarie, educatori, volontari, cappellani – così come vengono riportate dai media ci parlano di condizioni di vita terribili alle quali non tutti riescono ad adeguarsi o alle quali non tutti ce la fanno a sopravvivere al punto che dall’inizio dell’anno ci sono stati oltre cinquanta suicidi, ma forse la cifra non è aggiornata ed è errata per difetto. Nelle celle sovraffollate, dalle quali si esce un’ora al giorno, si è costretti a convivere in pochi metri quadrati senza l’ombra di riservatezza, in presenza di dinamiche dove la prevaricazione è forse l’unica forma organizzativa. In simili condizioni è possibile attivare strategie per il recupero di personalità distorte? O non si trasforma piuttosto il carcere in una università del crimine?

Credo che le leggi carcerarie italiane prevedano che i detenuti siano reclusi in istituti penitenziari nell’ambito della regione dove risiede la famiglia riconoscendo così un valore alla possibilità che non si spezzino del tutto i rapporti familiari. Non c’è dubbio che i familiari delle vittime i quali non possono altro che recarsi a deporre un fiore alla tomba del congiunto ucciso stiano in una condizione infinitamente peggiore. Quando un individuo commette un delitto non solo getta nella disperazione la famiglia della vittima ma, consapevolmente o meno, arreca un grave danno anche alla propria, per cui a volte un delitto colpisce e sconvolge due famiglie.

Se non la legge almeno la pietà umana non dovrebbe dimenticare chi è in uno stato di sofferenza qualunque sia il grado di responsabilità. Forse i paragoni fra coloro che soffrono servono più a schierarsi da una parte che a comprendere.

Come vedi queste poche e confuse riflessioni servono più a me per fare il punto che a tracciare possibili soluzioni per problemi che mi sembra giusto, specialmente per chi è preposto a considerarli e a prendere provvedimenti, siano valutati senza pregiudizio. Un saluto Enzo

Posta un commento o usa questo indirizzo per il trackback.

Commenti

  • Giovanni Ceccarelli  Il novembre 19, 2010 alle 4:14 PM

    Cari amici, siccome non mi va di passare per “forcaiolo”, come l’amico De Martini mi dipinge, vi prego di ascoltare quanto segue.
    Il caso che mi è arrivato dal Canada –e sul quale io per primo, malgrado la lettera fosse originariamente in francese, ho espresso dei dubbi di “verità” (oggi si usano molti mezzi mediatici piuttosto discutibili per “mobilitare le coscienze” a favore o contro alcune tesi; e proprio nello stesso giorno era venuto di nuovo alla ribalta da noi il caso Gallinari)- era molto semplice. Da un lato un morto giovane “sul lavoro”, un giovane che per pagarsi una vita possibilmente migliore lavora di notte in una pompa di benzina; dall’altro un altro giovane che preferisce, in assoluta libertà e per procacciarsi una vita momentaneamente migliore – un atto violento e assassino cui associa in seguito un atto vandalico (il bruciare i materassi); da un lato una vita irrimediabilmente finita; dall’altro una vita che continua; da un lato il dolore di una madre che può andare solo al cimitero, dall’altro il dolore di una madre che vede spostarsi il suo figlio -vivo- da una prigione ad un’altra.
    Enzo Zangrando –che malgrado le sue idee è un mio caro amico- non ha “soluzioni”, ma il suo scopo primario è la redenzione del “colpevole”; posso dire che anche io –forcaiolo- ho questo scopo, visto che certamente non posso passare attraverso una “risurrezione del morto” che –sola- ne sarebbe una redenzione ? Ma per me la redenzione passa attraverso lo scontare la pena inferta da un ordinamento che presumo “giusto”, sia pure nell’ambito di una “giustizia umana”. A pena scontata, interamente, senza sconti vari (non c’è sconto alla morte) poniamoci seriamente il problema del reinserimento del “colpevole” nella società dei normali (credo che tutti siamo d’accordo che un comportamento assassino non è “normale”). Enzo Zangrando, poi- come si fa sovente- allarga il problema, già di per sé abbastanza vasto, a quello dell’ergastolo. Abolita –in parecchie Nazioni, anche se non certo nelle più importanti e popolose: vedi (rapporto 2004) Cina, 5000, Iran, Iraq, Vietnam, Usa, Singapore, Sudan- la pena di morte, il passo successivo è l’abolizione dell’ergastolo, abolizione che all’atto pratico già esiste in Italia (da molti anni: vedi la legge 354 del 1975; possibilità di ammissione ai permessi premio dopo 10 anni di pena scontata e alla semilibertà dopo 20 anni).
    Altro problema ancora sollevato da Zangrando è quello della “vita nelle carceri”, di cui non ho, per mia fortuna, una esperienza diretta che mi auguro, anche per la mia età, di non fare mai. Certamente anche io –forcaiolo- penso che la vita nelle carceri debba essere, appunto- una vita, e non la frequenza obbligatoria in una “università del crimine” ; ma questo non toglie, a mio avviso, che non possa certo perdere quel carattere di “pena” che le è proprio per cui non deve certo diventare soltanto un vivere a spese dello Stato.
    Resta il fatto che tra i due dolori delle due madri del mio caso iniziale, la mia “simpatia” va in primo luogo alla mamma dell’ucciso, senza per questo abbandonare la mamma dell’uccisore e del vandalo; ciò che fortemente non voglio è che si crei in quella che oggi si chiama “l’opinione pubblica” solo una (più o meno velata) simpatia per il colpevole (per il quale una triste e dannosissima psicologia ha cercato negli ultimi decenni di trovare tutte le giustificazioni possibili: sociali, morali, generazionali, famigliari e così via), dimenticando del tutto, in brevissimo tempo, il dolore senza fine di chi è costretto a una vita diversa che – a differenza del “colpevole”- non ha proprio voluto. Per ampliare anch’io il tema, infine, la richiesta se i famigliari degli uccisi da Gallinari (così ha asserito la giustizia umana) “perdonano” l’uccisore mi pare una inutile e anzi dannosissima confusione tra il piano giuridico e il piano morale e religioso.
    GiC

    "Mi piace"

    • antoniochedice  Il novembre 19, 2010 alle 4:38 PM

      Ahi, Ahi, Ahi, le semplificazioni sono sempre mamme di polemiche. Ovviamente non intendevo dare del forcaiolo all’amico Ceccarelli. Volevo esemplificare l’eterna lotta tra le due tendenze quale che sia l’argomento in ballo. Mi scuso per l’espressione che non voleva ferire nessuno.IO comunque sarei forcaiolo !

      "Mi piace"

  • Piero D'Offizi  Il novembre 22, 2010 alle 3:55 PM

    A proposito dei delitti e delle pene farei un parallelo in parte improprio ma che forse può aiutare nel ragionamento. Perché viene elevata (sic!) una multa per una infrazione a una legge? Mi sembra sia ovvio che in primis la multa è una punizione nel senso di “deterrente”: fa riflettere sull’errore compiuto, ma soprattutto induce a buoni propositi per l’avvenire consistenti nel cercare di evitare di ricadere nella punizione: la quale si comprende in pieno solo se la si prova. Se in generale la pena non fosse basicamente un deterrente, non vedo perché di processi eclatanti si debba ogni giorno sentire, vedere, leggere su tutti i media: forse per suscitare sensi di colpa, commiserazione, condivisione per le vittime della pena stessa? Che poi da noi per le più svariate ragioni ( buona condotta, amnistie, indulti, e così via) viene alla fine drasticamente ridotta (niente sotto i tre anni, ergastolo al massimo 15-20 anni, ecc..) Il “pensiero debole” e il “relativismo” e il “pietismo” sono per noi italiani una continua tentazione.

    Se, passando a condanne più serie delle multe, la pena non comporta una certa qual dose di sofferenza, allora è meglio abolirla ( teoria cara ai “centri sociali” e limitrofi e affini) – in antico non amavano accollarsi il sostentamento dei reprobi, mantenendoli gratuitamente: o l’esilio o la cicuta ( per non parlare del “carcer mamertinus”…). Tornando alla detenzione, il concetto di rieducazione va ragionevolmente e razionalmente applicato, tenendo conto che è molto difficile sperare che una persona formata e a suo modo matura possa ravvedersi seriamente. A me sembra necessario evitare le teorie tanto oggi frequentate che considerano chi delinque come vittima di una ingiusta società che lo ha portato alla condizione di delinquere, e che quindi si deve far carico della sua redenzione e riabilitazione nella utopistica ( anche dati i mezzi a disposizione) intenzione di creare un “uomo nuovo”. Va abolito anche il “41 bis” che sento adesso dal TG essere l'”incubo dei mafiosi”? Per inciso, sono uno che non ha mai capito perché la pena è ben diversa se una vittima di aggressione riesce a sopravvivere (magari paralizzato ), o per caso indipendente dalla e contro la volontà dell’aggressore, muoia. Così pure, le condizioni di vita di chi è ristretto in carcere devono essere umanamente sopportabili, ma a me sembra non meno importante che vada molto diffusa e sostenuta la proposta che l’unica vera redenzione sia quella che si può ottenere attraverso il lavoro ( specie manuale, senza arrivare ai “lavori forzati”..), non certo attraverso l’ozio ( evito riferimenti alle paternità..) in condizioni di promiscuità. Capisco come questo sia estremamente impegnativo per la cosa pubblica, ma sono sicuro che dove applicata, e non mancano esempi, gli effetti possano essere veramente importanti e salutari: per me è la più seria soluzione da proporre. Mi scuso per la sincerità, ma il problema è serio.

    "Mi piace"

Lascia un commento