A TRENTA ANNI DALLA MORTE DI RANDOLFO PACCIARDI, MARCO NESE, PER ANNI GRANDE INVIATO DEL CORRIERE DELLA SERA, ATTINGENDO AGLI ATTI PARLAMENTARI DA LA PAROLA AL DEPUTATO CHE PER PRIMO – RINUNZIANDO ALLE LUSINGHE E DA SOLO- DENUNZIO’ LA DITTATURA DEI PARTITI CHE HANNO PORTATO ALLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA.
UNA ANALISI IMPIETOSA E COMPLETA. UNA COMPLETA LEZIONE DI STORIA PATRIA ORMAI INSOLITA IN TEMPI DI DECADENZA MORALE E POLITICA. IL CORRIERE DELLA COLLERA ANTICIPA IL TESTO CHE E’ IN STAMPA E VERRA’ PUBBLICATO IL PROSSIMO OTTOBRE.
Ecco l’Intervista
Ho fatto decine di interviste. Forse centinaia. Mai però mi era capitato di dialogare con un uomo che non è più fra noi.
Ma è possibile ottenere risposte da chi ha abbandonato questo mondo? Sì, è possibile se quest’uomo ci ha lasciato azioni coraggiose e comportamenti esemplari, se di lui sono rimaste parole chiare che rivelino senso morale, pensiero cristallino e una fede mai tradita. Tutte qualità che descrivono la figura e la personalità di Randolfo Pacciardi. A volte le sue parole cristallizzate negli atti suonano perfino profetiche. E allora ascoltiamolo.
Ecco, mi pare di vederlo, in piedi, statuario, a Montecitorio nel 1963 quando in aula si discute della formazione del governo di centrosinistra.
Sentiamo cosa dice.
“Il mio discorso è di netta opposizione a questo governo. Ho visto un battaglione di ministri e sottosegretari, ne avevamo dappertutto, davanti, di fianco, di dietro, invadevano tutta la Camera. Mentre domandate austerità al Paese, date scarsa prova di senso dello Stato presentandovi con una compagine così complessa e numerosa. Mi è venuta in mente la dea Artemide che era rappresentata non con due seni, ma con parecchi filari di seni, credo fossero venti, un terzo di questo governo. Ho pensato che quella fosse proprio l’immagine dello Stato come se lo prefigura il governo di centrosinistra. Cioè come un dispensiere di latte per tutti”.
Mi perdoni, onorevole, capisco che il centrosinistra non le piace, ma le chiedo di precisare meglio questo concetto del latte per tutti.
“Significa riempirsi di debiti. I figli e i figli dei nostri figli pagheranno per i debiti che fa questo governo. Un governo con programmi a lunga scadenza per cui chi governerà in seguito avrà solo il compito di amministrare i debiti. Anche le industrie si trovano di fronte a questo dilemma: o vendersi allo straniero, come in gran parte sta succedendo, oppure condannare l’Italia a essere la cenerentola del progresso economico europeo”.
Da questo deriva la sua opposizione?
“Ma certo. Ci opponiamo alle statizzazioni, nazionalizzazioni, programmazioni, tutte coercizioni. Chi vuole la sua redenzione, se la conquisti. La leva del progresso, della civiltà è affidata ai cittadini e non si deve aspettare dallo Stato”.
Lei mi perdonerà se a volte riassumo un po’ il suo discorso. Lo faccio solo per chiarezza e brevità. Dunque, questo governo di centrosinistra al quale lei si oppone è presieduto da Aldo Moro. Mi sembra di aver capito che lei avesse stima dell’uomo, una stima ora svanita.
“Persona colta, Moro. Tempo addietro usava un linguaggio diverso, parlava in modo semplice, usava parole chiare. Per mettere insieme un governo dove siedono cattolici e socialisti ha faticato un mese ed è riuscito nell’impresa inventando un linguaggio nuovo, fumoso, che dice e non dice. Gliel’ho rinfacciato, gli ho detto: questo vostro incedere con passo felpato onorevole Moro fra Cristo e Satana avrà ripercussioni che forse voi non immaginate. Avete creato un vostro stile del tutto diverso da quello di dieci o quindici anni fa. Avete imparato a dire cose che non dicono niente, o cose polivalenti che possono essere interpretate in cento modi. Per interpretare i vostri discorsi sarebbe necessaria una classe di sacerdoti o di tecnici, come si faceva nell’era pagana per interpretare gli oracoli o i responsi delle sibille”.
E le persone comuni cosa capiscono di questo linguaggio oracolare?
“Niente. Siamo in presenza di una classe politica che si sta sempre più insensibilmente allontanando dal Paese. Portano nello Stato i cavilli della curia. Siamo pressappoco ai regimi parlamentari del medioevo”.
Quei primi governi di centrosinistra non sono durati a lungo. Un paio d’anni.
“Sì, ed hanno aggravato la situazione economica. Hanno creato una tremenda incertezza negli operatori, hanno creato una crisi cosiddetta congiunturale. Un biennio di centrosinistra ci ha lasciato un disastro. E Moro lo ha ammesso. Il 4 agosto 1964, quando ha spiegato le ragioni della crisi del suo governo, è stato onesto. Ha detto la verità. Un discorso malinconico ma chiaro e serio. Ma come se ci presentasse l’inventario di altri governi, non il suo. Non si è mai visto che i giri di vite fiscali siano un incentivo alla produzione”.
In quell’occasione, lei fece notare con disappunto che l’arrivo dei socialisti al governo aveva penalizzato i liberali.
“Un vero e proprio ostracismo al partito liberale. Quell’antiliberalismo segna un rigurgito di vendetta storica contro il nostro Risorgimento. Il partito repubblicano non può rassegnarsi a fare da prezzemolo in questo minestrone clerico-socialista. Vorrei ricordare che De Gasperi allontanò dal governo comunisti e socialisti, il Paese gli credette e la Dc ebbe la maggioranza assoluta”.
Una Repubblica da riformare. Ci sono le condizioni?
“C’è qualche cosa che si muove in questa Italia che sembrava infrollita e rassegnata dinanzi alle bubbole buddiste di Aldo Moro e di una classe politica che si crede dirigente e che non è altro che rimorchiata”.
Dando vita a Nuova Repubblica, cosa si proponeva?
“Innanzitutto ricostruire lo Stato italiano ridotto a una condizione di poltiglia che giorno per giorno si decompone: pensiamo a uno Stato semplificato e ordinato, decente e onesto, pulito, controllato, che sia il supremo regolatore della convivenza di tutti gli italiani. Enti, uffici, posti di comando, stanze dei bottoni vengono distribuiti con nauseante imbarazzo alla luce del sole. Il centrosinistra ha elevato a regime il sottogoverno. Bisogna disfare le sette per rifare lo Stato”.
Come definirebbe il governo?
“Il governo rappresenta la Nazione e non i partiti. In Italia si è venuta formando una partitocrazia che non ha nulla a che fare con la democrazia, è una dittatura, un’oligarchia anonima peggiore di tutte le altre perché non assume le sue responsabilità. Il potere appartiene a questi organismi privati esterni che sono i partiti. Noi non possiamo farne parte. Sarebbe il colmo se dopo aver combattuto diventassimo sudditi e schiavi di queste baronie moderne. Questa è la Repubblica dei compari, sempre gli stessi, in tutti i governi”.
Lei però è stato ministro.
“Con De Gasperi sono stato ministro della Difesa. Erano i primi anni di questa Repubblica e non si avvertivano i difetti del sistema perché al governo c’era, appunto, un uomo come De Gasperi che non ha mai voluto trattare coi partiti. Avevo buoni rapporti con i democristiani. Nel 1959 Andreotti diventò ministro della Difesa e mi mandò un biglietto in cui mi annunciava, appunto, che andava alla Difesa. Diceva di essere “fiducioso nel tuo consiglio e nella tua collaborazione”. Erano altri tempi. Ma poi tutto è cambiato. E allora che Parlamento è, dove decidono tutto i capi dei partiti? Ricordo il senatore Merzagora dire che tanto varrebbe chiudere il Parlamento e fare un sinedrio ristretto per registrare la volontà dei partiti”.
La sorprende che i cattolici abbiano accettato di governare coi socialisti?
“Diciamo che ci sono cattolici che vogliono mescolare il sacro col profano e sollecitano l’autorità della Chiesa per puntellare il loro malfermo e poco commendevole dominio. Ma se io fossi Papa risponderei come fece Papa Leone quando il giovane imperatore luterano lo pregò di partecipare alle alleanze politiche. “Non tentare il Signore Dio tuo”, lo liquidò Papa Leone”.
Questo suo atteggiamento critico le procura attacchi feroci.
“Ah, certo. La partitocrazia si difende e attacca. Sento dire che ho fini personali, che voglio fare il de Gaulle, che sono qualunquista, che sono fascista. Lo dicono proprio quelli che durante il fascismo partecipavano alle più brutte manifestazioni del regime, compresi i comunisti. Sono proprio i profittatori del regime fascista che sono passati armi e bagagli nel regime partitocratico, sono essi che ci insultano”.
Torniamo indietro negli anni. Durante il fascismo lei riparò in Svizzera.
“Lugano. E’ passato tanto tempo. Trascorsi in terra elvetica sette dei miei anni di esilio. Ci sono tornato dopo la nascita della Repubblica. Avevo bisogno di poter parlare agli svizzeri e ai loro figli non come facevo allora, con la voce irata o lamentosa dell’esule, costretto dalla mia missione a portare discordie anche tra loro, ma come rappresentante di una libera Nazione venuto a festeggiare eventi di storia per molti aspetti comune. É stata l’occasione per chiedere indulgenza ai cittadini svizzeri verso i quali le passioni di allora mi portarono a essere unilaterale o addirittura ingiusto”.
La Svizzera ha significato molto per i dissidenti italiani.
“Tutti i proscritti del Risorgimento passarono per quelle terre, Ugo Foscolo, Pellegrino Rossi, Santorre di Santarosa, il Conte Porro, Gabriele Rossetti, i fratelli Ugoni, Giovanni Berchet, Pietro Giannone, Luigi Angeloni, Filippo Buonarroti, Biolchi, Tadini, Passerini, Prandi, la principessa Trivulzio-Belgioioso, il marchese Bossi, De Prati, Conte Pecchio e i Nathan, Rosales, Melegari, Picchioni, Bellerio, Cironi, Deboni, Mamiani, Gioberti, i fratelli Ciani, i fratelli Ruffini, Dall’Ongaro, De Mester, La Cecilia, Garibaldi, Grillenzoni, Vannucci, Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini”.
Patrioti di varie ideologie.
“Moderati, rivoluzionari, monarchici, repubblicani, cattolici, anticlericali, federalisti e unitari, pensatori e uomini d’azione, aristocratici di alto lignaggio e popolani oscuri, ebbero in Svizzera le loro passioni, le loro lacrime, i loro slanci, i loro contrasti. Le tipografie pubbliche e clandestine, i giornali, le ville e talvolta i sotterranei furono al servizio della grande cospirazione. Al mio ritorno in Roma dopo diciotto anni di esilio, il primo pensiero fu scrivere un articolo in elogio della Svizzera”.
Parliamo di un altro capitolo del suo esilio, il periodo passato in Spagna al comando della Brigata Garibaldi durante la guerra civile. Sulla strada per Valencia, nel febbraio del 1937, durante la battaglia del fiume Jarama per difendere un ponte dalle milizie di Francisco Franco, lei subì ferite molto serie alla testa. C’è un filmato in cui si vede lei sanguinante mentre viene sorretto dal futuro leader socialista Pietro Nenni. La voce narrante di quel filmato è nientemeno che Ernest Hemingway. Dice che gli Italiani, specialmente nella battaglia di Brihuega, persero più uomini che in Etiopia.
“Dopo essere rimasto ferito, raggiunsi Parigi per farmi medicare. Ero in convalescenza nella capitale francese, ma decisi di tornare in Spagna e nel marzo del ’37 guidai la battaglia di Guadalajara, una città a 58 chilometri a nordest di Madrid”.
Quella fu una battaglia strana, combattuta da Italiani che si battevano contro altri Italiani in terra spagnola.
“Ed è finita con la vittoria per le armi repubblicane. La grande battaglia di Guadalajara, iniziata da quattro divisioni di Mussolini, si risolse in una sconfitta per i fascisti. I resti del corpo di spedizione fascista furono inseguiti sulle strade e sui monti. Come comandante del battaglione Garibaldi potei parlare a Radio Madrid di questa grande battaglia di Guadalajara che seguiva di pochi giorni la grande battaglia del Jarama”.
I fascisti sembravano sicuri di poter vincere.
“Credevano che l’armata repubblicana fosse esausta e senza riserve. Quattro divisioni italiane con centinaia di carri d’assalto, cannoni, mitragliatrici e camion speravano di prendere alla gola Madrid. Pensavano che ci avrebbero sconfitti. Noi eravamo molti esuli dispersi dal fascismo, molti erano venuti direttamente dall’Italia. Avevamo costituito un battaglione che aveva preso il nome di Garibaldi. Abbiamo ripreso l’idea garibaldina di rendere libera l’Italia da tutti i servaggi, dare forza e coraggio al proletariato italiano per conquistare da solo la liberazione economica e la libertà civile. Mentre il fascismo consumava tutte le risorse italiane in una beota religione della forza e in avventure internazionali dove rischiava da pazzo la rovina del Paese. Volevamo liberarci del fascismo, dopo l’Italia dell’Impero, dopo l’Italia del Papato, volevamo l’Italia del Popolo, tendente anch’essa ad un prestigio universale. Prestigio delle istituzioni libere, della redenzione della plebe, il prestigio dell’arte, dell’intelligenza, dei traffici, del lavoro, della pace”.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, l’Italia si trovò sotto il controllo degli Alleati.
“Già, gli Alleati. Non tutto è andato per il meglio. Io fui chiaro. Dissi: Voi, governo inglese e americano, avevate preso impegni solenni verso il popolo italiano; avevate promesso di sostenerlo, nel caso in cui si rivoltasse contro il fascismo. Si è rivoltato. E tutti sanno come lo avete sostenuto. Avete perduto quaranta giorni nelle trattative col Re e con Badoglio che, come primo atto del loro nuovo regime di stato d’assedio, avevano fatto dimettere il comandante del Corpo d’armata di Milano perché non aveva avuto cuore di sparare contro il popolo e i capi della rivolta popolare”.
Cosa si aspettava?
“Bisognava mettere in disparte la monarchia, ci voleva un Comitato nazionale o un governo provvisorio formato da uomini non compromessi. Invece di essere prigioniero in un campo di concentramento, Badoglio è stato nominato capo del governo. Il governo ha lasciato confondere l’Italia fascista con l’Italia antifascista. In quel periodo l’Italia aveva bisogno di alte coscienze morali per risollevarsi dal fango e dal dolore”.
Questo tragico aspetto non è stato compreso dagli Alleati.
“Non hanno compreso che il responsabile della guerra non era un solo uomo. Con Mussolini era responsabile il Re, era responsabile lo Stato maggiore, era responsabile il principe Umberto. Se abbiamo l’ingiusta fama di essere un popolo imbelle, lo dobbiamo in gran parte a una casta militare piemontese, ristretta, boriosa e cogliona, che ha perso sempre tutte le guerre. Il Risorgimento si è fatto a forza di sconfitte monarchiche e vittorie popolari e garibaldine”.
Tuttavia verso gli Alleati, gli americani in particolare, bisogna essere riconoscenti.
“Non c’è dubbio. Se non ci fosse stato Roosevelt noi saremmo stati ancora a lungo sotto il tallone tedesco. Gli Stati Uniti hanno il supremo interesse di aiutarci a guarire il nostro continente malato e il solo modo di guarirlo radicalmente dalla sua follia guerriera è quello di organizzare gli Stati Uniti d’Europa”.
L’idea mazziniana dell’Unione europea.
“Non c’è alternativa. E’ possibile immaginare mondo in cui il problema europeo non sia risolto nel suo complesso? Tutte le soluzioni prospettate, all’infuori della Unità federale dell’Europa, saranno soluzioni incerte e pericolose. Per noi Italiani esisterà sempre il grave problema della mancanza di materie prime, ma nell’unità federale europea la cosa si risolverebbe: le materie prime che ci mancano ce le ha la patria europea. Le frontiere nazionali sono diventate anacronistiche. L’altro secolo fu il secolo delle unità nazionali, adesso è il secolo delle unità continentali. Ma anche qui mi è sembrato che negli Stati Uniti non tutti abbiano le idee chiare”.
A cosa si riferisce?
“L’America in fondo è stata vittima dell’inguaribile pazzia del nostro Continente. Avrebbe dovuto comprendere. Ma il ministro del Tesoro Morgenthau ha parlato di deindustrializzare la Germania e farne un Paese agricolo. Un progetto folle da pace di Cartagine che equivale alla distruzione della Germania e all’affamamento dell’Europa. Pensare di assicurare la pace e la sicurezza in Europa dividendo i tedeschi, disperdendoli in mezza Europa, ma questo sarebbe il modo sicuro per creare un altro nazismo”.
Torniamo alla sua attività politica. Lei rifondò il partito repubblicano al rientro dall’esilio.
“Il sistema italiano non può che essere repubblicano. E la federazione europea non può che essere popolare e democratica, cioè repubblicana. L’assurdo hitleriano era quello di costituire un’unità europea cesarea o napoleonica. Ora, ci sono due mondi, quello occidentale che ha avuto le sue rivoluzioni liberali e la sua civiltà capitalistica. Poi c’è la Russia. Dall’incontro dei due mondi in senso sociale è possibile scorgere non il tramonto dell’Occidente, ma una salutare risultante storica che concili definitivamente il socialismo con la libertà”.
Secondo lei è possibile coniugare socialismo e libertà?
“Mazzini vide questa conciliazione nelle organizzazioni autonomistiche degli Stati, non imposta dall’alto, ma conquistata dal basso, attraverso la redenzione delle plebi, questa visione è ancora viva e moderna”.
Come valuta l’esperienza mazziniana della Repubblica romana del 1849?
“Dopo pochi mesi che la bandiera tricolore era salita sul Campidoglio, i repubblicani italiani ebbero una pugnalata alla schiena: i soldati delle repubblica francese, affiancati da altri tre eserciti invasori, imposero di ammainarla. In quei pochi mesi il governo repubblicano di Roma disegnò una Costituzione, sotto il tiro dei fucili e lo schianto delle bombarde, che resta un monumento di sapienza civile. Il governo repubblicano decretò l’autonomia più completa per i Comuni, riformò la giustizia, sopprimendo in particolare il Tribunale del Sant’Uffizio e istituendo i giurati per i giudizi penali; rese libero l’insegnamento, abolendo tutte le tasse scolastiche, comprese quelle per conseguire i più alti titoli accademici, creò una banca di Stato, che doveva promuovere l’agricoltura e il commercio, divise le terre demaniali in lotti enfiteutici redimibili da assegnare alle famiglie dei più poveri coltivatori. E stabilì il principio che tutti hanno diritto alla casa”.
Un insegnamento per i posteri.
“Sicuro. A Sant’Elena, un condottiero di eserciti, Napoleone, si vantava di aver dato alla Francia il gusto della gloria per un secolo. Ebbene, Garibaldi e Mazzini hanno dato all’Italia il gusto eterno della gloria. Ma non della gloria mendace, delle guerre, delle conquiste, della potenza, degli imperi. La gloria bensì delle libere istituzioni civili, delle competizioni nell’arte e nella scienza, nei commerci e nel lavoro, nelle missioni e nelle iniziative”.
Cosa intende quando parla di rivoluzione sociale?
“Il Cristianesimo ci aveva proclamati figli di un solo Dio, tutti fratelli, tutti uguali. Ma in cielo, non in terra. Una rivoluzione spirituale che rovesciando dai loro marmi gli dei pagani ci disse tutti figli di un solo dio, cioè tutti fratelli, tutti uguali, e così furono gettate le basi della società democratica. Il Rinascimento italiano aveva riportato sulla terra il senso della dignità umana. Le rivoluzioni politiche inglese, americana, francese avevano proclamato i diritti dell’uomo, diritti politici, diritti giuridici. Ma se noi pensiamo che non si può conciliare la libertà con la monarchia pensiamo anche che non si può conciliare la libertà con la fame. Questo è il senso della rivoluzione sociale”.
Una rivoluzione sociale che, in base alle sue parole, non mi sembra che possa coincidere con la rivoluzione sovietica.
“Lo dissi alla Camera in modo chiaro nel 1956 quando i carri armati sovietici invasero l’Ungheria. Avevamo l’impressione che il gruppo comunista fosse un po’ smarrito, che una certa crisi di coscienza toccasse gli uomini di quella parte. Invece no. Non abbiamo notato perplessità. E io debbo dire con estrema umiliazione di aver ascoltato il discorso più cinico che abbia mai udito nella mia vita”.
L’irascibile Giancarlo Pajetta si urtò molto per queste sue espressioni.
“Sì, mi insolentiva dandomi del tu. E al richiamo del Presidente dell’aula disse: allora lo chiamerò signore, mister Pacciardi. E io dissi: fa bene, ella infatti un signore non lo è”.
Be’, Pajetta fu sempre un po’ impertinente.
“Ma io ricordai a lui e a tutti i colleghi parlamentari che il 10 febbraio 1947 fu firmato a Parigi il trattato di pace con l’Ungheria. Firmatari di questo patto erano le potenze alleate e l’Unione Sovietica da una parte e l’Ungheria dall’altra. Nel primo paragrafo dell’articolo 2 di questo trattato si legge: “L’Ungheria prenderà tutte le misure necessarie per far sì che tutte le persone che si trovano sotto la giurisdizione ungherese, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua, di religione, godano dei diritti umani, delle fondamentali libertà, comprendenti le libertà di parola, di stampa, di pubblicazione, di culto religioso, di opinione politica e di pubbliche riunioni”. Il trattato fu firmato da Ungheria e Unione Sovietica. A rileggere oggi queste parole abbiamo il senso esatto della scandalosa ipocrisia che sta dietro a certe firme e certe accettazioni di trattati. In realtà per anni l’Unione Sovietica ha violato costantemente queste clausole del trattato di pace”.
Un regime spietato.
“Criminale. Su chi aspira alla libertà, l’Unione sovietica si abbatte col peso bruto e schiacciante della sua forza militare, come in Ungheria. Ogni volta che ai dirigenti sovietici è venuto anche il semplice sospetto che i comunisti di questi sventurati Paesi che, per ironia quasi insultante si chiamano democrazia popolare, il sospetto che non fossero abbastanza obbedienti alle direttive del Cremlino, sono stati incarcerati o ammazzati come cani. Almeno questo è pacifico perché lo ha detto anche Krusciov. Una spaventosa tirannide si è abbattuta su questi popoli ai quali gli alleati, Russia compresa, avevano promesso la libertà. Si è abbattuta spesso addirittura sui comunisti e a volte specialmente sui comunisti che non fossero giudicati dai dirigenti di Mosca abbastanza servili verso l’Unione sovietica. Una scandalosa parodia di processi che ben conosciamo. Una morte orribile li attendeva prima di essere fucilati o impiccati e dopo essere stati sottoposti a innominabili torture che li riducevano come stracci, sono stati indotti a dichiarare che erano spie, agenti dello straniero, traditori, dovevano perfino farsi rinnegare dai più sacri affetti, farsi rinnegare dai propri figli”.
In realtà i fatti d’Ungheria qualche crisi di coscienza l’hanno creata in alcuni comunisti.
“E meno male, perché i particolari della sanguinosa ed eroica lotta di liberazione del popolo magiaro esaltano ogni cuore umano: sono di quelle rare pagine della storia che, in questa atmosfera di opportunismo e di viltà che spesso ci circonda, fanno ancora credere nel genere umano e nei supremi valori dell’esistenza umana. Però vorrei dire che Giuseppe Mazzini aveva previsto tutto”.
Cosa aveva previsto?
“Solo giudicando la dottrina comunista, aveva immaginato e tristemente profetizzato quale sarebbe stata la fine. Nel 1849 scrisse: “Avrete la più tremenda tirannide che l’uomo possa ideare sulla terra. Tirannide. Essa vive nelle radici del comunismo e ne invade tutte le formule. Come nella fredda, arida, imperfetta teorica degli economisti, l’uomo non è nel comunismo che una macchina per la produzione. La sua libertà, la sua responsabilità, il suo merito individuale, l’incessante aspirazione che lo sprona a nuovi modi di progresso di vita svaniscono interamente. Una società pietrificata nelle forme, regolata in ogni particolare non ha luogo per l’io. L’uomo nell’ordinamento comunista diventa una cifra, un numero primo, secondo, terzo, decreta un’esistenza di convento monastico senza fede religiosa, il servaggio dell’evo medio senza speranza di riscatto”.
Dopo questa sua autentica requisitoria alla Camera, i comunisti non gliel’avranno perdonata.
“Per i comunisti ieri ero l’agente degli americani, oggi sono passato al servizio degli inglesi, ma io sono stato invece sempre al servizio della mia coscienza e ho sempre sposato tutte le cause che mi sono sembrate giuste”.
Passiamo ad un argomento che a lei sta molto a cuore, l’Unità d’Italia.
“Ne ho parlato nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità. Sono andato a celebrarlo a Reggio Emilia, una terra dove fermentarono le prime audacie rivoluzionarie quando l’Italia, dilaniata, spezzata, avvilita da secoli di dominazione straniera, cominciava, brancolando fra i sepolcri a ricercare sé stessa. Nella terra che ebbe la temerità di proclamare la sua prima Repubblica, a furor di popolo nel 1796. Dove per felice ventura si alzò prima che altrove il tricolore italico che fu simbolo del nazionale riscatto”.
Sì, però lei si è chiesto perché celebriamo l’Unità d’Italia come se fosse avvenuta nel 1861.
“In realtà, erano ancora distaccate Venezia e Roma e per poco Messina e Gaeta ancora presidiate dalle milizie borboniche. Allora perché facciamo cominciare l’Unità dal 1861? Si potrebbe pensare malignamente che il governo voglia dare solennità al 1861 per toglierla al 1870, quando l’Italia fu unita davvero con Roma capitale. Il 14 marzo 1861 la Camera dei deputati all’unanimità vota il disegno di legge preparato da Giorgini, nipote di Manzoni, secondo il quale il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia. Il 27 marzo 1861 la Camera vota un ordine del giorno che auspica che sia resa all’Italia Roma, acclamata come capitale dall’opinione pubblica nazionale. Insomma l’Italia era fatta ed era ormai nell’ordine fatale delle cose l’unione di Venezia e Roma. Lo intesero a Roma stessa dove le opere di Verdi davano pretesto a imponenti manifestazioni patriottiche. Lo intesero a Venezia dove per incanto si chiusero i negozi come nelle giornate di festa. Allora, ecco la data del 1861, noi tutti sentiamo che l’evento ci appartiene”.
I patrioti che resero possibile l’Unità professavano ideologie a volte contrastanti.
“I cattolici pensano a Rosmini e a Gioberti, al Tommaseo e a Manzoni e agli oscuri sacerdoti che risolsero l’arduo conflitto della loro coscienza, votandosi alle cospirazioni e alle battaglie per la patria. I liberali ai Balbo, ai D’Azeglio, ai Ricasoli e al più grande di tutti, Cavour, che seppe come disse il Ferrari “diplomatizzare” la rivoluzione popolare e così trasformata e incanalata di porla all’Europa retriva della Santa Alleanza. I socialisti pensano a Carlo Pisacane e alle tendenze sociali che, come nella rivoluzione francese, sono in grembo di ogni rivoluzione politica. I monarchici pensano a Vittorio Emanuele II che malgrado tutto lo stesso eroe della rivoluzione popolare giudicò sempre migliore dei suoi consiglieri e senza transigere con la sua fede invento il binomio “Italia e Vittorio Emanuele”. I repubblicani pensano a Mazzini, a Garibaldi e alla lunga schiera di patrioti, di eroi, di martiri che risvegliarono l’Italia”.
Divisioni ideologiche che permangono ancora oggi.
“I risentimenti di oltre un secolo fa si sono placati. Possiamo tuffarci nelle grandi memorie della storia, onorarle come tappe di un progresso comune e senza rinunziare alle rispettive credenze per l’avvenire. Vorrei si potesse dire al momento del trapasso quel che Camillo Prampolini disse di Angelo Manini: E’ morto come visse, repubblicano, lontano dal rumore della vita pubblica, sdegnoso di onorificenze e di favori, quasi ignorato, senza altro compenso per i sacrifici e le lotte sostenute, fuorché l’acre piacere di aver compiuto un difficile dovere, e le intime ebbrezze inenarrabili che una fede intensa prodiga ai privilegiati che la posseggono. Così furono gli uomini che fecero l’Italia, i grandi e i piccoli, i maestri, gli eroi, i condottieri e gli umili combattenti. Ricordarli in un’epoca di crisi, di meno puro disinteresse, di meno ferreo stile e carattere, di meno salde credenze, significa respirare un’atmosfera di alta purezza e spiritualità”.
Per secoli non si è parlato di Unità d’Italia. Come mai?
“L’idea dell’Unità d’Italia, come forza politica e storica, come filosofia e come azione, è recente. Prendiamo Dante che pure s’innalza gigante dal Medioevo e annunzia il Rinascimento e in certe auree visioni, specialmente nel metro del giudizio, è moderno (pensate a Catone che era pagano, repubblicano e suicida, cioè aveva tanti titoli per andare all’inferno e Dante lo pone a guardia del Purgatorio, dove l’umano spirito si purga e diventa degno di salire al cielo). Dante segna i confini d’Italia “sì come a Pola presso del Carnaro che Italia chiude e i suoi termini bagna”. Tuttavia Dante politicamente è tutto del Medioevo, ha la passione e gli odi della città e l’idea dell’Impero, non l’idea dell’Unità nazionale. Sulla casa dove Machiavelli scrisse Il Principe, a San Cassiano, una lapide ricorda che egli meditò e difese la libertà dell’Italia. In realtà egli ebbe l’idea municipale, l’idea dello Stato certamente, ma non della Nazione”.
Quando si prende coscienza della necessità di una Patria unita?
“Tutto l’Illuminismo italiano, quasi contemporaneo di quello francese, il Verri, il Beccaria, il Gioia, il Romagnosi, il Pagano, il Filangeri, diffuse idee unitarie e fermenti di rinascita, ma non ebbe precisa l’idea nazionale. I poeti sì, il Foscolo, l’Alfieri, il Leopardi sentirono nell’anima gli sdegni, i furori, il supremo e sconsolato lamento della Patria in catene, ma si sa che i poeti sono anche profeti”.
Allora quando fiorisce il sentimento unitario?
“L’idea, la passione, la fede, la filosofia dell’unità nazionale, la sistematica concezione del Risorgimento nazionale, nel quadro di un Risorgimento europeo e universale, fu incontestabilmente di Giuseppe Mazzini. Quando altri patrioti come Cesare Balbo la definivano “un sogno da scolaruzzi di retorica” e Gioberti pensava ad una confederazione di Stati sotto la presidenza del sommo Pontefice e lo stesso Cavour, tutto concreto e realizzatore e incapace di abbandonarsi a sogni idealistici, fino a dopo il 1848, la considerava almeno prematura e inattuale e perciò, ripeto la sua drastica definizione, “una corbelleria”. Bisogna leggere lo Statuto della Giovine Italia e il giuramento degli affiliati. Là sono le linee direttive del nostro Risorgimento. Là sono le linee profetiche dell’Italia presente e del suo avvenire. La rivoluzione sarà nazionale, sarà politica, sarà sociale. E poco dopo, con la costituzione della Giovine Europa, fu detto: La rivoluzione sarà europea e, la spirale sempre più si svolge, con la costituzione dell’alleanza repubblicana universale, sarà umana perché una è l’umana famiglia”.
Quindi, dopo l’Unità d’Italia, il sogno è l’Unità d’Europa.
“E’ indispensabile. Basta considerare che non era trascorso un secolo dall’Unità d’Italia e già il Continente di cui facciamo parte, scosso nel giro di una sola generazione da due guerre mondiali, distrutto e vicino al tramonto, ritrovava la via della rinascita nella superba indicazione degli apostoli del nostro Risorgimento: gli Stati Uniti d’Europa. Come tutte le vie rivoluzionarie, non è facile. Abbiamo tentato l’Unità europea facendo leva sulla necessità di una comune difesa, e abbiamo fallito. Percorriamo allora la via più lunga dell’integrazione economica che fra ostacoli e resistenze inevitabili ci condurrà a creare fatalmente un primo grande nucleo europeo politicamente e economicamente organizzato in un’unità federale che non vuole sopprimere le patrie, ma vuole esaltarle e potenziarle in un comune destino”.
Sul piano nazionale, le divisioni ideologiche sono ancora evidenti. Lei stesso diceva che molti sono disinvoltamente passati dal fascismo all’antifascismo.
“La Repubblica sarà davvero il regime di riconciliazione nazionale se i nostri avversari saranno capaci di anteporre la lealtà democratica e il superiore bene della Nazione alle passioni faziose. La stessa distinzione tra fascisti e antifascisti potrebbe fra poco non avere più ragion d’essere, esclusi naturalmente i criminali e i profittatori. Noi che siamo repubblicani antichi e, ci sia permesso di dirlo, senza macchia, ci faremo propugnatori di una più vasta e radicale amnistia di quella che è stata annunciata”.
In visita sulla collina desertica di El Alamein, lei ha dato un grande esempio di conciliazione.
“Ho manifestato i sentimenti che dovremmo nutrire tutti. Il cimitero di El Alamein, che accoglie i caduti di quella zona, ha l’assistenza di un gruppo di ex combattenti sotto la guida impareggiabile di Caccia Dominioni, che viveva nel cimitero stesso con i suoi collaboratori. Caccia Dominioni fu valoroso combattente in Africa e poi partigiano nel Nord, fu arrestato e ferito gravemente durante la guerra di liberazione. La sua tragedia personale sulla quale si è innalzato per compiere una missione di alta spiritualità e carità, è un poco la tragedia della Nazione italiana. Anch’essa l’ha superata per formare nuovamente, dalle rovine e dai cimiteri, una famiglia nazionale unita, che riprende anche su quelle terre, ma in forme pacifiche e civili, la sua missione nel mondo. L’Italia può stendere l’oblio sulle proprie sventure e onorare i suoi morti”.
C’è chi non smette di far notare che quei morti combattevano dalla parte sbagliata.
“Lunga e complessa è la vita di un popolo e anche questi morti sono un capitolo della sua storia. In quel cimitero sventola il tricolore, sotto quella sabbia c’è sangue italiano. Forti della riconquistata libertà, fermamente decisi a non ripetere gli errori del passato, noi non ci sentiamo qui di giudicare. Dobbiamo inchinarci, onorare e piangere con devota umiltà. Un ufficiale inglese ha deposto anch’egli una corona al cimitero italiano, a nome del suo governo. Il capo della Nazione egiziana ha aggiunto i suoi fiori e il suo cordoglio, noi stessi ci siamo recati a rendere omaggio anche ai morti della Germania, dell’Inghilterra e dei suoi alleati. Su quelle sponde fatali è tornata la pace e la concordia. Non ci si avvicina a quelle croci, perennemente scosse dal vento del deserto, senza fare ai morti, a tutti i morti, il giuramento di costruire un mondo migliore”.
Veniamo alle questioni economiche. Quali iniziative considera prioritarie?
“Affrontiamo i problemi del Mezzogiorno. I problemi del latifondo e delle industrie agrarie e marinare. I problemi della scuola. I problemi delle autonomie locali. I problemi delle comunicazioni. Non trattiamo il Mezzogiorno come una zona coloniale per prelevare questurini come ha fatto la monarchia e ogni apparenza di contrasti sparirà. Il Mezzogiorno, dagli eroi della Repubblica Partenopea fino ai picciotti di Garibaldi, fino ai santi scugnizzi della liberazione di Napoli, è stato sempre una riserva di patrioti. Soltanto i farneticamenti passionali di una monarchia moritura, circondatasi di squadre di lazzaroni, potevano mettere in dubbio un bene ormai assoluto e irreversibile: l’Unità d’Italia”.
Come vorrebbe cambiare l’organizzazione statale?
“Napoleone ci regalò le prefetture. Andavano bene forse per la Francia. Non sono state utili per l’Italia. Abbiamo bisogno di un’amministrazione semplice, economica, intelligente, che restituisca l’iniziativa e la responsabilità agli Enti locali. Il popolo deve abituarsi a sentire lo Stato vicino, a sentire che lo Stato è lui, non una specie di ente soprannaturale e inaccessibile, un nume irato complicato e nemico”.
Però si va proprio contro la semplificazione.
“Ed è un errore. Faccio l’esempio dell’agricoltura. Ci sono schiere di mediatori, compreso lo Stato, di professori, di ispettori; controllori si sono inseriti fra l’agricoltura e il Paese istituendo il più grosso flagello parassitario che abbia mai colpito un settore produttivo. Enti di sviluppo. La partitocrazia ha figliato l’entocrazia e sono insieme un’altra gramigna della terra e dello Stato. Tutto è mediato, controllato, accentrato. Ma l’accentramento statale delle ricchezze non crea né il socialismo né il comunismo, ma la loro forma spuria e corrotta, il capitalismo di Stato. Dobbiamo arrivare alla partecipazione agli utili dell’impresa per i lavoratori, al loro accesso al capitale azionario ed anche alla corresponsabilità nella direzione dell’azienda”.
Mi perdoni, ma la vostra rappresentanza politica non è tale da poter influire sulle scelte governative.
“Però, il più grande aiuto ci viene ogni giorno dai nostri avversari coi loro intrighi, con la loro mediocrità, con le loro debolezze, coi loro scandali, le loro ruberie, col loro disordine, con la loro incoerenza, il trasformismo, le loro esperienze economiche avventate. Hanno creato una situazione economica drammatica. Debiti iperbolici. Come faranno i Comuni a pagare le aree concesse per l’esproprio. E che inflazione provocherà una massa di miliardi che i Comuni non hanno?”.
Vorrebbe cambiare anche qualche aspetto della Costituzione?
“Ci sono delle incongruenze nella Costituzione. Ad esempio, il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio supremo delle Forze armate e il Consiglio superiore della magistratura. Li presiede come capo o come membro, sia pure primus inter pares? Se li presiede come capo, che cosa avverrebbe il giorno in cui con una votazione fosse messo in minoranza? Poi ci sono alcuni aspetti della Costituzione che sarebbe stato meglio trascurare”.
A cosa si riferisce?
“Per esempio le Regioni. Il governo era partito dicendo che le Regioni non si fanno. Non si fanno senza la garanzia che socialisti e comunisti si mettano d’accordo negli importanti poteri regionali. Facile comprendete quali conflitti si verificherebbero con il governo centrale. Si è finito per concludere che le Regioni bisogna farle lo stesso. I comunisti si sono impegnati moltissimo per le Regioni. Li capisco. Potrebbero prendere il governo in cinque Regioni. Con cinque Regioni in mano, i comunisti avrebbero le leve per disorganizzare questo Stato che una volta chiamavano borghese, capitalistico. Qualsiasi Stato che ammette e ha l’ordinamento regionale ha un potere speciale, cioè un potere forte e stabile al centro, benché democratico”.
Un potere centrale forte rappresentato dal capo dello Stato che voi vorreste far eleggere dal popolo.
“Sì, vogliamo che il Presidente della Repubblica sia eletto dal popolo e non dai partiti. Il regime, per sé stesso, non può fare miracoli. Ma il Presidente della Repubblica deve installarsi al Quirinale non per ripetervi i fasti del re, ma per dare l’esempio di un’amministrazione onesta, parsimoniosa ed austera. Insegnare che il diritto si aspetta da qualcuno, da qualcosa, da Dio, dalla società, dallo Stato. Il dovere no, il dovere è l’uomo”.
E i partiti che ruolo avrebbero?
“Anche nella Repubblica presidenziale esistono i partiti, cioè associazioni libere di cittadini che si raggruppano secondo determinate concezioni filosofiche, politiche e sociali per proporre al popolo soluzioni e candidati alle cariche pubbliche. Il capo dello Stato nomina il governo scelto fuori del Parlamento, e se composto da parlamentari, essi si devono dimettere dalla loro carica. La Camera è eletta a suffragio universale, ma il numero dei rappresentanti del popolo dev’essere ridotto. Il Senato dovrà essere composto da rappresentanti della cultura, della tecnica, delle forze di produzione e sindacali. Così perderebbero importanza le clientele politiche che sono penetrate all’interno dell’apparato democratico”.
E gli elettori avrebbero una rilevanza maggiore.
“Esatto. La critica che noi muoviamo a questo regime, a questa Costituzione è che in definitiva il grande assente è il popolo. Democrazia viene da demos che vuol dire popolo. Ma qui siamo sostanzialmente a una oligarchia partitocratica. Il presidente del Consiglio non sceglie i suoi collaboratori, accetta quelli che gli offrono i partiti che li designano in base alle loro correnti senza alcun riguardo alla competenza. Il presidente del Consiglio deve perdere i tre quarti del suo tempo non a governare il Paese ma a governare i suoi ministri. E non dimentichiamo che la composizione di un governo di centrosinistra, già di per sé difficile da governare, comporta una grave incertezza in politica estera. Nel giro di pochi anni la Cina come potenza atomica sarà una realtà. Il suo immenso territorio, il numero quasi incommensurabile dei suoi abitanti le fanno ritenere che forse è la sola Nazione che potrebbe sopravvivere a un cataclisma universale. L’avvenire ci imporrà una scelta in politica estera. E con il centrosinistra questa scelta sarebbe al di fuori delle nostre alleanze e dell’interesse nazionale. Non si può restare legati a patti di difesa del mondo libero e poi comportarci come un Paese disimpegnato”.
Commenti
Randolfo Pacciardi: una lezione sempre più “inattuale” e quindi sempre più attuale. Massimo Morigi – 26 giugno 2021
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Una sola risposta possibile al precedente post: Pfui … Massimo Morigi – 1° luglio 2021
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